"The casting couch", ovvero come funzionano i provini del cinema dal 1923 in poi
L'approccio da sfigato di Weinstein, la concretezza di Marilyn Monroe
In “American Pie” il giovanotto arrazzato si scopa la torta di mele tiepida, la mamma l’aveva lasciata incustodita sul tavolo di cucina. Cinque minuti bastanti per dissacrare un paio di istituzioni americane (una fetta di fegato serviva allo scopo nel “Lamento di Portnoy” di Philip Roth, ma l’Edipo era meno sentito: “Mi sono scopato la cena dei miei genitori”). Per i troppi film adolescenziali visti, conosciamo anche l’uso non canonico del calzino. Harry Weinstein introduce la variante green, riferita da un’esterrefatta signorina: invece del calzino una pianta in vaso. Da qui la battuta di Stephen Colbert: “Se andate a cena da Harry Weinstein, evitate il basilico appena colto”.
Neanche il casting couch – passaggio delle attrici dal divanetto che il produttore teneva strategicamente nel suo ufficio – è più quello di una volta. Ora son docce o bagni con la porta spalancata, massaggi, seghe, accappatoi con la cintura slacciata. Episodi che tornano alla memoria con anni o addirittura decenni di ritardo – sarà un caso, quando la potente macchina per Oscar Miramax (comprata dalla Disney nel 1993, abbandonata dai fratelli fondatori Weinstein nel 2005) ha lasciato il posto alla meno sfavillante Weinstein Company.
Si racconta che Marilyn Monroe, firmato il suo primo contratto, abbia annunciato alla compagna di stanza Shelley Winters “finalmente non ne dovrò più succhiare neanche uno”. All’inizio del cinema le ragazze facevano anticamera con la mamma, entravano a una a una, dopo venti minuti uscivano spettinate e affannate (la mamma era lì per firmare il contratto, essendo le aspiranti star minorenni). Joan Crawford era andata al dunque, girando un filmino porno (per l’epoca, era il 1923) intitolato sfacciatamente “The Casting Couch” – noi diciamo “Il sofà del produttore”, come sulla copertina del libro di Selwyn Ford uscito nel 1991 da Mondadori. Altri aneddoti – e non riguardano solo le femmine, anche Dustin Hoffman scappò da un provino troppo ravvicinato – sono in “Tales From the Casting Couch”. Per la cronaca: quando Joan Crawford diventò famosa da vestita, la Mgm fu ricattata per la bella cifra di 100 mila dollari del 1935, li pagò e distrusse la pellicola compromettente. Dal divanetto si salvò soltanto – ma forse è una leggenda, certo avrebbe saputo incenerirli con un’occhiata – Bette Davis.
Nella Hollywood che fu si chiacchierava, tutti sapevano. Non come adesso che metà industria del cinema cade dalle nuvole – non ne sapevo niente, dicono i maschi con Meryl Streep e Judy Dench, mentre il Saturday Night Live toglie le battute dal copione perché “è una cosa di New York”. L’altra metà ricorda che “sì, anch’io una volta sono stata invitata in camera sua” (non essere state molestate da Harry Weinstein equivale ormai alla patente di racchia). Bisogna dire che le tragiche storie – come le racconta Rowan Farrow (figlio di Mia Farrow) sul New Yorker – risultano piuttosto bizzarre. Nel caso di Asia Argento, leggiamo di una presentazione alla mamma – mossa impegnativa, da parte di uno che ha chiamato la Miramax con i nomi dei genitori, Miriam e Max. Di incontri proseguiti per cinque anni. Di una baby sitter gentilmente offerta “quando ero una madre single”. Non sembra uno stupro. Sembra un “prima mi andava, ora non più”.
Marilyn Monroe, che appunto se ne intendeva e non lo nascondeva, inquadra bene la situazione: “I produttori volevano assaggiare la mercanzia e, se dicevi di no, ce n’erano almeno altre venticinque disposte a dire sì”. Noi con Weinstein abbiamo imparato il verbo inglese “to gope”: l’approccio da sfigati. I vecchi produttori, da lassù, potrebbero dare qualche dritta.
Politicamente corretto e panettone