Ecco "Super Vacanze di Natale": evviva il cinepanettone

Andrea Minuz

E’ un rito catartico, liberatorio, che in questi anni ha tenuto in piedi la nostra industria del cinema

Alla fine i cinepanettoni si sono rivelati più forti dell’odio, dello “sdoganamento culturale” e della temibile mediazione intellettuale che prova a trasformarli in oggetti riflessivi, spiegando il significato di tette, culi e rutti liberi. Meglio un’operazione come quella di Paolo Ruffini, fan, esegeta, cultore della materia, con un film che ce li fa vedere con occhi nuovi senza addomesticare la carica della gag, delle battutacce, dei doppi sensi sul marchese “Della Fregna” (“Della Fregna?” chiede il barman; “volentieri, la gradisco”, risponde De Sica in “Natale a Beverly Hills”).

“Super vacanze di Natale” è un film di montaggio che racconta trentacinque scellerati, formidabili anni di cinepanettoni in meno di novanta minuti.

 

 

Lo fa assemblando le gag per grandi blocchi tematici: i corpi, gli insulti, i consumi vistosi, le flatulenze, il sesso, la cacca (che fatta nel “Salò” di Pasolini è un feticcio del Potere ma con Massimo Boldi fortunatamente può restare cacca). In un’epoca di prequel, sequel, remake e ammucchiate tra supereroi, sembra un’operazione d’avanguardia. Oggetto abbastanza inclassificabile, “Super vacanze di Natale” è un greatest hits, un saggio critico, un tributo alla Filmauro di Aurelio De Laurentiis, una resa dei conti con la critica, un’antologia, una dichiarazione d’amore, un’elegia. Se ce ne fosse bisogno, è un film che dimostra anche che attore straordinario è Christian De Sica, incompreso dai nostri cento autori, colpevole solo di aver lavorato in un sistema che disprezza l’entertainment puro che si muove senza le stampelle del contenuto, perché se “è una commedia” bisogna almeno aggiungere “ma fa anche riflettere”. De Laurentiis e Ruffini provano a portare al cinema chi si è formato con la lotta di classe tra romani e milanesi a Cortina d’Ampezzo, magari per fargli dire che non ci sono più i cinepanettoni di una volta, ma dietro l’operazione nostalgia si guarda con astuzia ai quindicenni cresciuti su YouTube che vedono i film solo a spezzoni, tutto il resto è noia. Sono “trentacinque anni di storia del paese”, ama dire Aurelio De Laurentiis. Dal 1983 a oggi, i cinepanettoni sono cambiati parecchio e noi con loro. Dal primo “Vacanze di Natale” fino ai vari “Natale a”, hanno via via preso un ritmo da slapstick. Più gag, più parolacce, più capitomboli e una stilizzazione che sconfina nelle forme del cartone animato (“Massimo Boldi nudo è come Gatto Silvestro”, dice Ruffini). I cinepanettoni sono così la nostra risposta politicamente scorretta al sempre più correttissimo film d’animazione di Natale, dunque oggetti da preservare con cura nel mondo del dopo Weinstein e nell’epoca del “sexual harassment”. “Cinepanettone” è l’unica parola che non indica un genere, come “thriller” o “noir”, né un innesto culturale, come gli “spaghetti western”, ma un rito sociale specifico del nostro paese. Il film comico più o meno sguaiato da vedere al cinema durante le feste. Dunque, un omaggio alla sala, alle risate da fare tutti insieme nel tempo sospeso della vacanza. Un rito catartico, liberatorio, che in questi anni ha tenuto in piedi la nostra industria del cinema prima che se ne occupasse Checco Zalone, quando ha tempo. L’effetto “specchio del paese” lo lasciamo ai detrattori indignati che nei beati anni del bipolarismo toccarono punte indimenticabili d’isteria.

 

Repubblica spiegava che i cinepanettoni stavano al berlusconismo come i telefoni bianchi al fascismo, che erano l’emblema di quella parte del paese sbagliata, che parcheggia in doppia fila, non paga le tasse e ostenta orribili piumini lucidi. Soprattutto, erano film fatti per chi non è padrone del proprio gusto perché subisce solo imposizioni dall’alto (dal mercato, dalla televisione, dai poteri forti). Abbiamo avuto bisogno dei cinepanettoni per sentirci più intelligenti degli altri e rafforzare la convinzione di essere gli unici a muoverci negli sconfinati sentieri di libertà del “consumo critico” e dell’“evento culturale”. I cinepanettoni sono tutti uguali, dicevano. Come avessero individuato il difetto. Sì, sono uguali. Liberi dal ricatto del contenuto e uguali come il menù del pranzo di Natale. Se la saga continua chiediamo a gran voce almeno un “Natale a cinque stelle” tratto dai Diari di Dibba. 

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