Cari cinematografari, mettetevi a lavorare
I film italiani hanno fatto un brutto tonfo nel 2017 e subito è partito il piagnisteo: non c’è Zalone, è colpa di Netflix, dateci più soldi. Invece il cinema sussidiato è pigro, siamo fermi al neorealismo. Mancano rischio d’impresa e marketing
Il cinema ha chiuso. O, per essere meno melodrammatici e più aderenti alla realtà, ha cambiato indirizzo. Viaggia nemmeno più solo in tv, viaggia su Netflix e su una quantità di device che del buio in sala non sanno che farsene. Al cinema, con la puzza dei popcorn, le poltrone scomode e il parcheggio che non trovi la magia non c’è più. Ci si va solo per il grande evento, il film che proprio non si può mancare sul grande schermo. Il problema è che non è mai un film italiano. I dati del mercato cinematografico 2017 hanno evidenziato una caduta da buccia di banana. Oplà. Meno 46 per cento sul 2016 per presenze (17 milioni in tutto) e meno 44 per cento in biglietti venduti. La quota del cinema italiano al box office è del 17,64 per cento, la peggiore degli ultimi quattro anni. Apriti cielo. Tutti a lamentarsi: eh, se non c’è Checco Zalone… Il Checco Zalone schifato a lungo dalla critica e dai cinéphile e che è diventato “evento” da solo, a forza di biglietti strappati: Quo Vado fece 65 milioni, quest’anno L’ora legale di Ficarra e Picone ne ha fatti dieci. Se l’Italia fosse davvero un paese di cinéphile, citeremmo il cinema “Schermo Bianco” di Wim Wenders, quello che restava aperto anche se non lavorava più, “in attesa che tornino film degni di essere proiettati”. Invece, l’Italia cinematografara è un paese di piagnoni. Quindi, se nessuno va al cinema, e tanto meno a vedere un film italiano, l’unica sceneggiatura è chiedere soldi allo stato. La nuova legge Franceschini approvata a inizio 2017, “che prevede la creazione di un fondo completamente autonomo per il sostegno dell’industria cinematografica e audiovisiva e pone fine alla discrezionalità”, è stata accolta con applausi dal mondo del cinema. Il finanziamento pubblico è salvo, reso solo un tantino meno insensato. L’ovazione per l’idea del ministro dei Beni culturali di “costringere” Netflix a ospitare sulla sua piattaforma i film italiani e le serie tv italiane (che le serie siano il nuovo cinema, vi rimandiamo per auctoritas a Mariarosa Mancuso) è l’altro segnale del piagnisteo: è sempre colpa degli altri. Ma è commedia all’italiana. Farsi qualche domanda sul prodotto, sul marketing? Massimiliano Parente aveva sentenziato, su Franceschini: “Io gli risponderei ma pensa per te, paghiamo Netflix proprio per non vedere le serie italiane”.
Piccola nota sui contenuti, ma ne parleremo un’altra volta: il cinema italiano capace di rispecchiare l’Italia, i tic, le persone eccetera, è defunto: gli hanno staccato la spina decenni fa. Chi ha votato per l’eutanasia? Il film d’autore. Insomma, è la sentenza di Dino Risi a proposito di Nanni Moretti: “Mi viene sempre da pensare: scansati e fammi vedere il film”. Le opere italiane che hanno vinto Oscar negli ultimi decenni sono il remake del neorealismo (Salvatores, Tornatore) o della Dolce vita (Sorrentino). Per gli americani il cinema italiano finisce lì. Ai francesi piacciono les autores come a noi piacciono i Pinot Noir della Côte de Nuits. Nicchie. Il resto è vuoto.
Ma a noi piace pensare che il cinema sia denuncia e impegno civile, mafia, immigrati e facce da patibolo. Roba che non va a vedere nessuno. E poi, nel caso, c’è già Raiuno.E con questo, il caso sarebbe chiuso. Passiamo alle cose serie. Il prodotto. I produttori italiani hanno un problema industriale: non mancano i soldi, è che gliene danno troppi per fare brutti film. Non si assumono quasi mai il rischio di impresa. Bisognerebbe affamare la bestia, come dicono i liberisti. Hai una bella sceneggiatura? Riscrivila. Poi cerca un regista, non un amico, e rischia. Se va male, la prossima volta prova a fare meglio. In Italia riusciamo a sbagliare anche i dialoghi copiati da film stranieri. Ma il cinema è patrimonio culturale, dicono, col cappello in mano. Vero. Anche la Francia finanzia i suoi film. Ma, primo, ha delle scuole di cinema che sono delle vere alte scuole. Secondo, il sistema è quello dell’anticipo sugli incassi in sala: se il film toppa, non ci sarà un secondo “anticipo” per il regista e il produttore che hanno toppato. Da noi, se il primo film va male, ecco il credito per il secondo e il terzo. Quanti “giovani autori” abbiamo visto appassire così? Non abbiamo buone sceneggiature, se non per caso (il caso esiste). Forse perché nessuno ha mai provato a riscrivere una sceneggiatura dieci volte, e cambiare tre volte il cast, fino ad avere un buon prodotto. Il cinema sussidiato è un cinema pigro. Nota bene: per la tv le cose non vanno diversamente, ma forse almeno stanno cambiando. Su Netflix le serie italiane non ci sono perché sono meglio le altre. Non è colpa degli americani, ultimamente ce ne sono un paio francesi e una tedesca in cima ai gradimenti. Gomorra ha trionfato perché era un bel prodotto industriale. La Rai sta tentando, la nuova La linea verticale è stata lanciata prima sulla piattaforma streaming, esattamente come fanno in Usa. Ma a guardare come va lo streaming pirata, si scopre che i film italiani non li scaricano manco lì. Non è il costo del biglietto, non è la concorrenza straniera.
Marketing. Il cinema come consumo in sala è finito da decenni. Tolto il ceto medio riflessivo, al cinema si va per l’evento. Negli Stati Uniti, spiega Andrea Minuz, “sanno da tempo che il luogo del ritorni di cassa non è la sala. Il ritorno è dato dal merchandising, dal transito su altre piattaforme. E il successo è frutto del marketing. Ma in Italia abbiamo sempre avuto orrore di queste cose. La ‘promozione’ è rimasta il passaggio di Verdone da Fazio”. Non è che mancano i film, manca l’industria.