Ebrei polacchi e fiamme rumene
Film singolari da non perdere al Festival di Trieste e al Jewish Festival di New York
Il grafologo lo chiama “riccio della mitomania”. Quando il trattino della “t” va per conto suo, e la “a” termina con uno svolazzo (esiste anche il riccio istintuale e il riccio della soggettività, per la serie “tutto quel che so l’ho imparato al cinema”). Con i ricci da mitomane scriveva Michal Waszyński, figlio di un fabbro ucraino che finì i suoi giorni a Roma, da principe polacco in esilio. Quel che sta in mezzo è ancora più interessante: regista nel 1937 di una pellicola in yiddish intitolata “Dybbuk”, cineasta nell’esercito polacco alla battaglia di Montecassino, produttore nel film “La contessa scalza” di Joseph L. Mankievicz.
Una vita da Zelig, potremmo dire. Se ancora fosse lecito riferirsi ai film di Woody Allen, bandito dal consesso dei registi amici delle donne (risulta appestato anche l’ultimo suo film, “A Rainy Day in New York”: l’attore Timothée Chalamet darà i soldi guadagnati in beneficenza, così farà anche la produzione Amazon con gli incassi). La raccontano Elwira Niewiera e Piotr Rosolowski nel documentario “The Prince ad the Dybbuk”, in programma al Trieste Film Festival iniziato ieri (proseguirà fino al 28 gennaio).
I travestimenti dello zelig polacco sono anche al New York Jewish Film Festival, dal 10 al 23 gennaio. Ma per apprezzare certe interviste italiane giova conoscere un po’ la Hollywood sul Tevere. L’autista parla di una Rolls Royce con lo stemma di famiglia e le maniglie d’oro, e del principe che andava di cinema in cinema – meglio, di magazzino cinematografico in magazzino cinematografico – mormorando “Dybbuk… Dybbuk”.
Cercava una copia del suo vecchio film, che ora si può vedere senza fatica su YouTube. Magnifico bianco e nero da espressionismo tedesco. Abbastanza riti magici e abbastanza passaggi tra l’aldiqua e l’aldilà per convincere (definitivamente) Goebbels che gli ebrei fossero temibili e capaci di ogni malevolenza.
Il Festival di Trieste e il Jewish Festival di New York hanno nelle rispettive programmazioni un altro film singolare e certo non a lieto fine: “The Dead Nation”, girato dal regista rumeno Radu Jude. Era l’agosto scorso al Festival di Locarno, non pretendiamo esca in centinaia di copie, ma qualche spettatore interessato fuori dai festival lo potrebbe avere.
Sullo schermo passano centinaia di fotografie degli anni 30 e 40: posate, campagnole, e per lo più festose, da poco ritrovate negli archivi di uno studio fotografico. La voce fuori campo legge il diario che Emil Dorian, un dottore ebreo, cominciò nel 1937. Poco dopo perde il lavoro di medico della mutua, ma il diario continua. Compaiono nelle foto gli uomini in divisa, ma accanto ci sono i fiori e tutti sorridono. Il dottore scrive: “Stanno incendiando le sinagoghe”. Nelle ultime foto i rumeni inneggiano a Stalin, e il dottore non si sente ancora del tutto tranquillo.
Politicamente corretto e panettone