Berlinale 2018
La Sardegna delle donne girerà i festival. Ma no, non ce la meritiamo
Rupert Everett gira da solo il suo Wild, che però sarebbe scappato. Il solito tedesco “Transit” e’ molto da Orso d’oro
Imploriamo una sorpresa, anche piccola. Qualcosa che esca dal già visto, basterebbe di una virgola. Preghiamo per un film che non riusciamo ad anticipare scena dopo scena. Per una storia che non abbiamo sentito raccontare già cento volte (e anche la prima volta sembrava di saperla già). Per un festival che non faccia tornare in mente il “Giorno della Marmotta”, con Bill Murray che rivive sempre lo stesso giorno. La Berlinale 2018 non dà soddisfazioni, era inutile aspettarle dallo sbarco del film italiano in concorso, “Figlia mia” di Laura Bispuri (opera seconda dopo “Vergine giurata”, alla Berlinale del 2015 dal romanzo di Elvira Dones). Eppure l’insistenza con cui il copione ritorna stupisce anche il festivaliero incallito.
Nella prima riga della recensione, Variety evoca Anna Magnani e Ingrid Bergman, con i rispettivi melodrammi isolani “Stromboli” e “Vulcano”. Siamo in Sardegna, ecco perché vengono scomodati i mostri sacri. Per essere precisi: siamo nella Sardegna senza tempo del cinema italiano: vediamo un cellulare il tempo di una telefonata, poi sparisce (se restasse in scena, metà della trama sparirebbe). Festa con rodeo, una bambina dai capelli rossi è incuriosita da una bionda che si fa smanacciare da un cowboy, mentre una mora scarmigliata richiama all’ordine la piccola.
Considerato che il film si intitola “Figlia mia”, nasce un primo sospetto su cosa sta per succedere. Lo ricacciamo indietro a forza. Non per bontà d’animo. Perché guardiamo le due donne – Alba Rorhwacher e Valeria Golino – e cerchiamo di capire cosa abbiamo fatto di male per meritarci personaggi femminili così banali e generici. La santa e la puttana, sempre. Mai una sfumatura, mai un’ambiguità, mai un tratto originale. Abitino di cotonina a fiori e aria preoccupata l’una. Minigonna, scollatura, aria svagata l’altra (che dopo il rodeo cerca uomini nel retrobottega di un bar frequentato da tipacci e avvolto in una nuvola di fumo).
Risultato: la critica straniera applaude il neorealismo, le madri che si contendono la figlia, l’assolato Mediterraneo. La critica italiana inneggia alle due attrici – e alla difficoltà per Valeria Golino di imparare il sardo, mentre Alba Rohrwacher non sembra averci provato (il cattivo Udo Kier conserva il suo accento tedesco). Lo spettatore resta freddino. Tutto avviene con una lentezza esasperante, con molto vento tra i capelli, e senza che si sappia granché dello scambio e delle condizioni a cui è avvenuto il medesimo. Vediamo però la discesa della bambina dai capelli rossi in una caverna e relativa faticosa fuoriuscita, tipo seconda nascita. Viene in mente una frase del “Freud” di David Cronenberg: “A volte un sigaro è solo un sigaro, non un simbolo di qualcosa”.
“Perfetto per girare di festival in festival”: così chiude Variety (i professionisti che leggono il settimanale vogliono sapere se il film avrà un pubblico oppure no, e qui siamo piuttosto per il “no”). Prenderà magari qualche premio, alla Berlinale sono generosi. Ma non sembra un’idea di cinema da coltivare nel 2018, buttando poi le colpe sugli spettatori che preferiscono “Black Panther” o “La forma dell’acqua”. Oppure Gabriele Muccino e il suo “A casa tutti bene”, se proprio vogliono un film italiano (“Chiamami con tuo nome” di Luca Guadagnino non lo è, la sceneggiatura l’ha scritta James Ivory e gli attori sono americani).
Per dire come funzionano le cose nel cinema (industriale e con la speranza di incassare qualcosa). Rupert Everett scrisse una decina d’anni fa un copione sugli ultimi anni di Oscar Wilde. Piacque al produttore Scott Rudin – “Non è un paese per vecchi” dei fratelli Coen, “Il petroliere” di Paul Thomas Anderson – che voleva come attore Philip Seymour Hoffman. Lo sciagurato disse no (e ancora si morde le dita). Il produttore offrì il progetto a vari registi, tutti declinarono più o meno gentilmente. E’ finita che Rupert Everett il suo Wilde lo ha diretto e recitato, portandolo fuori concorso alla Berlinale dopo un passaggio al Sundance. “The Happy Prince” – così il titolo – viene da un racconto per bambini dello scrittore irlandese. Oltre che dall’Edipo di Rupert Everett: la mamma vestita come Jackie Kennedy gliela leggeva prima di dormire. Son cose da brividi, urlano “vanity movie”. Specialmente se il regista è al suo debutto (e ammette di avere eliminato molti suoi errori di recitazione al montaggio, ecco perché il film non va via liscio come dovrebbe). Gli anni dell’esilio dopo la condanna ai lavori forzati, della miseria, dei capricci di Bosie (l’amante Alfred Douglas, destinatario della lunga lettera dal carcere conosciuta come “De Profundis”), della tappezzeria troppo squallida perché un esteta potesse sopportarla – “o se ne va lei o me ne vado io”, pare abbia detto il moribondo – sono ricostruiti con puntiglio. E’ sull’estetica, neanche a farlo apposta, che il film inciampa. Luci, velatini, candele, assenzio, maschi in camicia da notte, scorci e vicoli pittoreschi, una Napoli e una Parigi da cartolina: il dandy caduto in disgrazia le avrebbe odiate come l’orrenda tappezzeria.
Ogni festival deve sbrigarsela con i registi locali (una settantina hanno firmato già il loro manifesto sul dopo Dieter Kosslick, esigono criteri chiari e trasparenti per la nomina del nuovo direttore). Presenza fissa alla Berlinale è Christian Petzold, quest’anno adatta il romanzo di Anne Seghers “Transit”. Stesso titolo del film in concorso: una fuga dai nazisti ambientata a Marsiglia e girata in abiti moderni, così da tracciare un parallelo tra gli ebrei di ieri e i migranti d’oggi. Una storia impegnata e da dibattito che potrebbe spianare la via verso Orso d’oro. Il presidente tedesco della giuria Tom Tykwer (era suo lo strepitoso “Lola corre”) non ha firmato la petizione che invoca la chiarezza e la trasparenza, ma qualche pensierino sul suo futuro lo avrà fatto anche lui. Aggiungete una voce fuori campo, una donna misteriosa di cui innamorarsi, un (brutto) manoscritto lasciato da uno scrittore suicida, uno scambio di identità: sul premio si potrebbe scommettere.