Con "Unsane" alla Berlinale gridano al miracolo
Mr Soderbergh si avventura nel più cedevole dei terreni per chi fa cinema: la follia, la confusione tra realtà e allucinazioni. Occhi anche su “Profile” di Timur Bekmambetov
Non è il primo film girato con un iPhone, prima c’erano almeno “Tangerine” di Sean Baker e l’horror “Hooked Up” di Pablo Larcuen (presentato nel 2013 al festival di Sitges, Catalogna). Quando lo smartphone viene maneggiato da Steven Soderbergh, l’effetto risulta dirompente. Alla Berlinale gridano al miracolo, al punto di non ritorno, alla creatività inarrestabile di un regista che l’avanguardia tecnologica (del 1989) l’aveva inglobata nel titolo del suo primo film, Palma d’oro a Cannes: “Sesso, bugie e videotape”.
“Unsane” è il titolo del nuovo film soderberghiano, lontanissimo dalle magnifiche immagini colorate di “Tangerine” – a proposito, speriamo esca presto nelle sale “The Florida Project”, l’ultimo film di Mr Baker (siamo perfino disposti a perdonare il demenziale titolo “Un sogno chiamato Florida” appioppato a una storia triste). Mr Soderbergh si avventura nel più cedevole dei terreni per chi fa cinema, non importa con quale mezzo tecnico, verrebbe male anche in 70 millimetri: la follia, la confusione tra realtà e allucinazioni, in questo caso attorno a uno stalker che perseguita Claire Foy (fuori dalla sua comfort zone, era la giovane regina Elisabetta nella serie “The Crown”). A rischio perché al cinema le allucinazioni sono immagini, esattamente come la realtà. Se un regista non è più che bravo, e anche Alfred Hitchcock si pentì per aver messo in un suo film un flashback che era solo frutto dell’immaginazione, grande è il disordine sullo schermo.
Più che nel film di Steven Soderbergh (presentato fuori concorso), un briciolo di novità andava cercato in “Profile” di Timur Bekmambetov, nella sezione Panorama Special. Il regista kazako di “I guerrieri della notte” – lotte tra supereroi e vampiri a Mosca – era il produttore di “Unfriended”, film dell’orrore dove era inquadrato sempre e soltanto lo schermo del computer (a volte con le amicizie di Facebook, a volte con l’esibizionismo di Chatroulette, a volte con le chiacchiere di Skype, era il 2014). In un’intervista apparsa sul Guardian, Timur Bekmambetov promise allora una serie di film girati allo stesso modo. In fondo, spiegava con felice associazione, quel che appare sugli schermi neri che maneggiamo – non solo il computer – è l’equivalente moderno del monologo interiore. Quel rimuginare che, portato sulla pagina, ha rivoluzionato bel po’ di letteratura del Novecento. Il nostro secolo dovrà dunque tener conto dell’affannoso avvicendarsi di immagini sugli schermi personali. Per far seguire i fatti alle parole, alla Berlinale ha portato “Profile”. La storia di una giornalista che crea un profilo posticcio, si mette in testa il velo, finge di lasciarsi indottrinare da un reclutatore dell’Isis. L’inganno funziona così bene che il cattivo maestro la vuole a combattere in Siria, subito. In caso di rifiuto, sa come ritrovare e convincere la malcapitata.
Effetto nostalgia