“Red Sparrow”, Jennifer Lawrence e il movimento #metoo
Il nudo nel film c’è e pare uguale a tanti altri. Speriamo sia servito almeno all'attrice a riprendere il controllo sul suo corpo dopo l’hackeraggio delle foto spogliate per uso privato
Jennifer Lawrence fa l’agente segreto russo in “Red Sparrow” di Francis Lawrence (non sono parenti, lavorano insieme dal secondo capitolo della trilogia “Hunger Games”). Charlize Theron aveva fatto l’agente segreto britannico in “Atomic Blonde” di David Leitch. Guai a pensare che i film abbiano qualcosa in comune. Lo ha proibito, un’intervista dopo l’altra, Jennifer Lawrence. Nel tempo lasciato libero, si intende, da chi voleva metterle addosso un cappotto quand’era sulla terrazza londinese svestita Versace. Lei ha risposto che con un abito così sarebbe stata un’ora al gelo, altro che i cinque minuti necessari per le fotografie. E del resto “nessuna donna ha mai preso un raffreddore per colpa di un vestito scollato” (Friedrich Nietzsche così come lo cita Ennio Flaiano in “Frasario essenziale per non passare inosservati in società”; vera o ben inventata che sia, coglie il punto).
“Red Sparrow” non è “Atomic Blonde”, sostiene Jennifer, per via di quella cosa che si chiama “female gaze”, ultima categoria critica pervenuta sulla scia delle molestie e del movimento #metoo. Intanto, in vista degli Oscar, due artisti hanno piazzato poco lontano dal Dolby Theater una statua di Harvey Weinstein in accappatoio, seduto sul sofà, una statuetta in mano come esca. “Female gaze” contrapposto al “male gaze” che finora ha imperato. Sguardo femminile contro sguardo maschile. Sempre che uno riesca a distinguerlo, senza fidarsi soltanto delle intenzioni. Dopo aver letto e approvato la sceneggiatura, Jennifer Lawrence ha avuto il diritto di veto sul risultato finale. Se una scena non le fosse piaciuta, o si fosse sentita a disagio, il regista l’avrebbe tagliata al montaggio. La versione cinematografica del consenso, da ribadirsi passo dopo passo. Una sorta di “final cut” in materia di sesso (l’altro “final cut” non l’hanno neppure i registi, infatti poi escono i dvd con il director’s cut, in genere più lungo e noioso; con il sesso la tendenza si potrebbe invertire, chi non vorrebbe vedere le scene tagliate da Jennifer?).
A vedere il film – due ore e venti per una storia di spie, bisognerebbe vietarlo – tutta ’sta gran differenza proprio non si vede. Il nudo c’è e pare uguale a tanti altri. Speriamo sia servito almeno – come spiega Jennifer – a riprendere il controllo sul suo corpo dopo l’hackeraggio delle foto spogliate per uso privato, nel 2014. Benissimo, siamo contenti, la cura ha funzionato. Ora Jennifer dovrebbe riprendere un po’ di controllo sui suoi film. Gli Oscar in giovane età rischiano di rovinare le carriere, la statuetta come migliore attrice ricevuta nel 2013 per “Il lato positivo” non fa eccezione. I doppi giochi dell’ex ballerina del Bolshoi che dopo l’incidente viene arruolata come spia (per garantire ospedali decenti alla mamma malata) non sono un gran passo nella direzione giusta.
Effetto nostalgia