Ritorno sulla Luna
Il primo successo planetario del cinema. Restaurata, un secolo dopo, una rara copia del cortometraggio di Méliès. L’abbiamo visto a Roma
E’ morto proprio ottant’anni fa Georges Méliès, il mago del cinema muto, che fu regista, sceneggiatore, produttore, fondatore del primo vero studio cinematografico a Montreuil sous Bois, inventore dei film di animazione e degli effetti speciali che hanno fatto sognare George Lucas e Steven Spielberg. Era un genio, un illusionista, un immenso prestigiatore. Usando mezzi artigianali, all’inizio del XX secolo, riversò l’illusione teatrale nel cinema degli albori. Ebbe una carriera gloriosa, ma brevissima, di appena quindici anni, prima di uscire di scena mandando letteralmente in fumo quello che aveva realizzato (in tutto circa 500 film), finire come venditore di caramelle e giocattoli in un negozietto nella Gare Montparnasse con la seconda moglie, l’attrice Jeanne d’Alcy, e morire in miseria a 77 anni, ormai quasi completamente dimenticato, in una casa di riposo della Mutuelle du cinéma, a Orly. Avrebbe mai immaginato che la resurrezione del suo Voyage dans la lune, Féerie cinématographique en 20 tableaux, che nel 1902 segnò il primo successo cinematografico planetario, sarebbe stata realizzata più di un secolo dopo e solo grazie ai prodigi della tecnica? Forse no. Eppure è successo. Un altro illusionista nostro contemporaneo, il francese Serge Bromberg, fondatore della Lobster Films, una società famosa nel mondo che da più di trent’anni si dedica con passione al recupero e al restauro di vecchi film, ha messo a punto l’ultimo effetto speciale per riportare in vita il capolavoro di Méliès.
Ebbe una carriera gloriosa ma brevissima, prima di uscire di scena, finire come venditore di caramelle e morire in miseria a 77 anni
La storia di questa resurrezione è un romanzo a lieto fine che bisogna raccontare sin dall’inizio. L’artefice è dunque Bromberg detto Bromby, un quasi sessantenne che ha l’entusiasmo di un bambino. Produttore di film, cartoni animati, spettacoli dal vivo, per quindici anni direttore del principale festival di animazione al mondo, il Festival di Annecy, animatore di programmi tv ultrapopolari, pianista accompagnatore di film muti, Bromby ha nel sangue l’avventura: figlio di ebrei polacchi, fuggiti in Francia agli inizi degli anni Trenta, e miracolosamente scampati all’Olocausto, tranne il nonno paterno morto a Auschwitz, ha sempre saputo sognare e far sognare alla grande. Grazie a lui possiamo vedere il film di Méliès a colori in una copia restaurata come nuova. In realtà noi il Viaggio sulla luna di Méliès l’abbiamo visto pochi giorni fa a Roma, durante una serata organizzata da Hermès per inaugurare il nuovo allestimento dello spazio in via Condotti dedicato a Jean Eugène Robert-Houdin che nella vita di Méliès fu un personaggio chiave.
L’avventura del mago del cinema muto comincia, infatti, nel 1888 con l’acquisto del teatro di magia di Houdin in Boulevard des Italiens. Dell’azienda di famiglia fondata dal padre (calzature di lusso), Georges Méliès non ne voleva sapere; aveva altro per la testa. Approdato a Londra per un tirocinio commerciale nel negozio di confezioni di un amico del padre, scoprì la sua vera vocazione frequentando gli spettacoli degli illusionisti all’Egyptian Hall. Tornato a Parigi, sposa un’olandese, inizia a produrre spettacoli da prestigiatore nella Galérie Vivienne o al Museo Grévin, e quando il padre si ritira dall’azienda, lui vende le sue quote ai due fratelli e si compra il teatro Houdin. Così, proprio in nome di Houdin, ospiti a Palazzo Torlonia del pdg di Hermès, Pierre-Alexis Dumas, pronipote del fondatore del famoso marchio francese, e dell’ad di Hermès Italia Francesca di Carrobio, abbiamo visto scorrere sullo schermo le immagini di quel capolavoro del cinema, presentato dallo stesso Bromberg che suonava il pianoforte come un “bonimenteur” d’altri tempi. Emozione assicurata.
Abbiamo visto infatti una gioiosa fantasticheria di 14 minuti, all’epoca un lungometraggio, suddivisa in vari quadri, per raccontare tutte le fasi di quell’avventuroso viaggio sulla luna: il congresso universitario di astronomi e studiosi, che fanno astrusi calcoli alla lavagna, agitandosi in un set minuscolo, con telescopi, compassi, e cannocchiali e l’aria di tanti Mago Merlino; la navicella, in cui alcuni di essi saliranno, costruita da una schiera di fabbri, meccanici, fonditori, falegnami, carpentieri, addetti ai ponteggi; la piattaforma di lancio del cannone sui tetti di Parigi, priva ancora del profilo della Tour Eiffel, e finalmente il lancio della navicella proiettile, fra ballerine in festa come quelle delle Folies Bergères; la traiettoria della navicella nello spazio, dritta verso la luna che man mano si ingrandisce fra le nuvole, e alla fine viene centrata in pieno, perché la navicella va a conficcarsi nell’occhio della luna, che ha la faccia di un mago suonato.
Una gioiosa fantasticheria di 14 minuti, suddivisa in vari quadri, per raccontare tutte le fasi del viaggio avventuroso. Scienziati e seleniti
Abbiamo visto i dotti scienziati uscire a uno a uno, in tuba e bastone, dalla scala della navicella allunata su un suolo roccioso, con strani corsi d’acqua, molti scogli e il globo splendente della Terra sullo sfondo. Abbiamo visto il prodigio di un ombrello che a un certo punto per incantesimo diventa un fungo, con grande sorpresa degli astronauti che cominciano a esplorare i dintorni, finché non vengono fermati da una misteriosa esplosione, e allora tirano fuori le coperte e si sdraiano a terra per un riposino, Li abbiamo visti svegliarsi poi di soprassalto quando arrivano i seleniti, tipi strani, molto nervosi, che guizzano saltando da un cratere all’altro, si lanciano in capriole e giravolte improvvise, con le loro protuberanze da rettili a forma di volti, e le costole a vista che fuoriescono dalle tutine verde pisello. Creature fantastiche ma niente affatto pacifiche, se presi a ombrellate svaniscono in una nuvola di fumo, ma poi riescono ad accerchiare gli scienziati, li portano alla corte del loro re, e finalmente se ne fanno fregare. I geniali inventori, infatti, riescono a liberarsi e se la danno a gambe levate, raggiungono la navicella sospesa a uno scoglio, e si lasciano precipitare verso terra, con un selenita che resta aggrappato alla calotta esterna. Chi ha visto al Museo di Washington la capsula dell’Apollo 11, che nel 1969 servì al primo sbarco sulla luna, non può che sorridere al confronto dell’astronave di Méliès, una vera prodezza in technicolor. Segue l’ammaraggio nell’oceano, col selenita sempre in bilico sulla navicella, il rimorchio del velivolo e il suo approdo in porto fra feste, danze, ballerine osannanti e sventolio di bandiere.
La luna ai tempi di Méliès andava molto di moda. C’era stato Jules Verne, col suo romanzo di fantascienza del 1865 Dalla Terra alla Luna, che ispirò a Méliès la trovata dell’enorme cannone propulsore del proiettile lanciato nello spazio, che però non prevedeva l’allunaggio. C’era stato il racconto di Herbert G. Wells, The First Men in the Moon, del 1901, e pochi anni dopo il romanzo di Jules Verne c’era stata persino un’operetta di Jacques Offenbach, Le voyage dans la Lune, prodotta con grande successo nel 1875 al Teatro della Gaîté. Ma per il cinema, il primo ad andare sulla luna fu Méliès, e la cosa straordinaria è che realizzò il suo film appena sei anni dopo aver visto i primi film dei fratelli Lumière.
Il set, racconta Bromberg, era minuscolo, largo appena sei metri. Era stato sistemato in una specie di serra che Méliès, all’epoca milionario, s’era fatto costruire nel suo giardino di Montreuil, con certi pannelli mobili che venivano allestiti, dipinti e montati per le varie scene da uno stuolo di pittori, scenografi, falegnami, costumisti. In mancanza di luce elettrica, per girare bisogna approfittare della luce del giorno, concentrando le riprese tra le 11 del mattino e le tre del pomeriggio. La produzione era completamente artigianale, piena di magie, di effetti speciali, ma il successo fu industriale e internazionale con proiezioni a Londra, a Barcellona, a Madrid, in America latina e persino negli Stati Uniti, dove fu addirittura Thomas Edison a curarne personalmente la contraffazione a partire da una copia, e la distribuzione illegale della pellicola pirata. Méliès, per quanto geniale, in un’epoca in cui, nel cinema, ancora non esisteva la tutela dei diritti d’autore, non aveva risorse per contrastare la pirateria del suo film. Per di più, fu travolto in breve tempo dal tumultuoso sviluppo della settima arte, e costretto prima a ipotecare la sua casa di produzione, poi a venderla per una manciata di franchi al rivale Pathé.
Anche la tecnologia digitale è servita nel lungo lavoro per ricostruire l’intera pellicola, colorata a mano come gli originali di Méliès
Nel 1913 chiuse il suo famoso studio di produzione, dopo appena sei anni di attività e a soli 52 gettò la spugna. Incapace di innovare, di adattarsi al nuovo, di stare al passo coi tempi che richiedevano un film alla settimana, con costi esorbitanti per le case indipendenti come la sua, smetterà di fare film. Dopo la guerra, il teatro Houdin fu demolito, la sua casa di produzione trasformata in ospedale, e in teatro, prima di essere sequestrata. Il povero Méliès, ormai sul lastrico e pieno di debiti, aveva perso tutto. L’unica protesta contro un sistema tanto ingiusto sarà il suicidio, un suicidio morale, un suicidio del cinema, compiuto bruciando la sua vita, e dando letteralmente fuoco a 520 negativi dei suoi film, forse per dimenticare il fallimento. Di quei 520 film, ne resteranno solo otto in circolazione. Oggi nel mondo intero ne sono riaffiorati 220, e all’appello ne mancano 300.
Ultimo prodigioso effetto speciale, a più di cent’anni di distanza, la resurrezione del Voyage dans la lune sarà il risultato paradossale della distruzione di una delle bobine originali, rimasta sepolta per decenni in non si sa quali mani e riesumata per caso, circa vent’anni fa, dopo che grazie a un anonimo donatore finì negli archivi della Filmoteca de Catalunya a Barcellona. Un bel giorno, il direttore della Filmoteca Antoine Gimenez va a Parigi a trovare Serge Bromberg, che con la sua Lobster Films, fondata giovanissimo appena uscito da una grande scuola di commercio e battezzata stranamente col nome di un animale non cacher, era riuscito a restaurare una serie di capolavori, Buster Keaton, Charlie Chaplin, i Fratelli Marx, Les Enfants du Paradis, mettendo insieme solo a Parigi un archivio di 5.000 film, e 130 mila pellicole da lui restaurate e depositate in tutti i paesi del mondo (60 mila delle quali in America, tra l’Oscar Academy di Hollywood e la Biblioteca del Congresso). Il catalano cercava i i film del catalogo di Segundo de Chomón, il distributore aragonese dei film di Méliès, che li ricopiava senza scrupoli in veri e propri plagi. Bromberg ne ha alcuni, e in cambio riceve dalla cineteca di Barcellona l’unica copia a colori del Voyage dans la lune di Méliès. Miracolo.
La pizza di quel film oggi al posto del numero di codice porta un nome: “Le Graal”. Bromberg ce la mostra via Skype e la apre, lasciando apparire alcuni frammenti di celluloide accartocciata, prossimi a finire in polvere, unici resti di quel capolavoro. “Quando la pellicola del film di Méliès arrivò a Parigi, era tutta incollata”, spiega Bromberg. “Impossibile staccarla. Perciò decidemmo di metterla sotto una campana di vetro, poggiata su una griglia, sopra una miscela di acetone, acqua e forse glicerina. Col processo di umidificazione speravamo si potesse staccare”. Per mesi, confinata sotto vetro, la pellicola a colori del film di Méliès restò nella cantina di Eric Lange, il socio di Bromberg, che ogni sera teneva d’occhio il processo di deumidificazione. A poco a poco, la pellicola cominciò ad ammorbidirsi, e fu possibile cominciare a separarne i vari strati con una pinzetta. Ma a quel punto l’impresa diventò ancora più complicata. “Il contenuto di ogni singolo fotogramma, anzi ogni singolo frammento di immagine veniva subito fotografato, sino a costruire una specie di puzzle con milioni di frammenti. A partire da quel puzzle, poi, abbiamo cercato di ricostruire l’intera pellicola”. Il conto è presto fatto: considerando che il film di Méliès dura 14 minuti e contiene 16 immagini al secondo… la ricostruzione avrebbe scoraggiato persino Sisifo. E invece Bromberg e i tecnici della Lobster sono riusciti a compiere la missione impossibile. “Per sostituire le parti mancanti, dovevamo andarle a prendere dalle immagini precedenti. Ma alcune sequenze erano andate completamente perdute. E siccome dall’hamburger non puoi ricreare la mucca, l’unica soluzione era di sostituirle con le immagine in bianco e nero, per poi ricolorarle a mano, come abbiamo fatto con la sequenza completamente della rampa di lancio sui tetti, che abbiamo ripreso da una copia finita in mano alla nipote di Méliès”.
D’altra parte, anche le pellicole originali di Méliès all’inizio del Novecento venivano colorate a mano, spiega Bromberg. “Méliès girava i suoi film in bianco e nero. Per la coloratura si serviva del laboratorio di una certa Madame Germaine Thouillier, che si trovava all’87 di rue di Bac, e occupava centinaia di coloratrici anche per le cartoline. Méliès aveva stretto un accordo: un film in bianco e nero, lo vendeva un franco al metro, e se era a colori a due franchi. Col ricavato portava la copia a colorare”.
Nessuno sa se la copia del Viaggio sulla luna, restaurata da Bromberg & Co., sia mai stata proiettata. “Non sappiamo nemmeno chi l’acquistò, forse uno spagnolo in vena di stupire i suoi amici, visto che a un certo punto compare la bandiera spagnola. La pellicola sarà stata proiettata molte volte, ma era ancora in buono stato, senza strappi, né incollature”.
La luna allora andava molto di moda. Una produzione artigianale: il set, racconta Serge Bromberg, era largo appena sei metri
La vera svolta per il restauro del film di Méliès arrivò quasi dieci anni dopo la “distruzione” dell’originale. E fu il prodotto della rivoluzione tecnologica. “Senza la digitalizzazione e la scansione elettronica, non avremmo mai potuto trasformare milioni di frammenti in un film continuo” dice Bromberg, che ha ricostruito tutta la vicenda in un bellissimo documentario, dove compare anche il principale artefice dell’intera operazione, Tom Burton, della Fondazione Technicolor, che con la Fondazione Groupama Gan sponsorizzò il tutto con un finanziamento di 400.000 mila euro”. Così, alla fine, quando uno gli domanda qual è la più bella scoperta, e quale sarà la nuova sorpresa, Bromberg, che sembra un tipo privo di ego, risponde divertito “La prossima”. E a parte il restauro del capolavoro di Cecil B. DeMille, The King of the Kings, un film muto del 1927, che Bromberg presenterà proprio oggi a San Francisco, nessuno sa quale sarà. Tutto è possibile, a cominciare dalle vecchie bobine, sepolte nelle cantine delle nostre case o abbandonate in certe soffitte di campagna. Chiunque senza saperlo può avere un tesoro. Per riesumarlo e riportarlo in vita, il mago esiste. Basta mandargli una mail: [email protected].
Politicamente corretto e panettone