A riveder le stelle
Il più enigmatico e visionario dei film di Kubrick ha cinquant’anni “2001: Odissea nello spazio”, dal flop al capolavoro (complice il ’68)
“Un sincretismo mitico. Un bacino di raccolta e contemporaneamente una celebrazione delle ossessioni esplosive degli anni Sessanta. […] C’è poca azione, nessuna narrazione, e tuttavia sembrano succedere cose straordinarie – cosa poi, nessuno sa dirlo con certezza” (Gerda Breuer)
Alla prima di Los Angeles, Rock Hudson se ne andò nell’intervallo, lamentandosi in un corridoio: “Si può sapere di che diavolo sta parlando?”. Al Capitol Theatre di Broadway, dove s’erano dati appuntamento il bel mondo newyorchese e attori come Henry Fonda e Paul Newman, 241 spettatori lasciarono la sala ben prima dei titoli di coda (sarebbe stato lo stesso regista del film a contarli, attesta Jack Nicholson nel documentario A Life in Pictures). E pure all’Uptown di Washington, teatro della prima
Spettatori in fuga la sera della prima. “Complicato, fiacco”, “trash mascherato d’arte” per la critica newyorchese dell’epoca
mondiale, stesse risate ad accompagnare le scene iniziali popolate da strani scimmioni, per lunghi minuti senza una parola. Sono passati cinquant’anni, era il 1968. Il 2 aprile nella capitale, il 3 a New York e a Hollywood il 4 – nelle stesse ore in cui si diffondeva la notizia dell’assassinio di Martin Luther King a Memphis – si affacciava al mondo cinematografico un film di fantascienza che avrebbe riscattato il genere da tutti i B-movie precedenti, pur non essendo una pellicola di genere in senso proprio. Che avrebbe portato nelle sale qualcosa di diverso da una semplice storia raccontata sullo schermo, per avvolgere lo spettatore in una dimensione diversa della visione (l’avrebbero chiamata poi film-experience). E che col tempo sarebbe stato infine riconosciuto come un capolavoro della storia del cinema. Ma i primi passi di 2001: A Space Odyssey, ottavo lungometraggio di Stanley Kubrick, non furono affatto facili. Rischiò il fallimento, a salvarlo fu in qualche modo il Sessantotto.
“Nel giudizio immediato di Hollywood – scrisse il critico Roger Ebert testimone del flop di Los Angeles – Kubrick aveva deragliato: nella sua ossessione per gli effetti speciali e la scenografia aveva in sostanza sbagliato il film”. Più corrosiva ancora dell’opinione del pubblico (delle prime) quella della stampa newyorchese. Paulina Kael, all’epoca la voce più influente della critica cinematografica americana, lo definì sul New Yorker “trash mascherato d’arte”. Per Renata Adler, altra stella del New Yorker che da pochi mesi guidava la pattuglia dei critici del New York Times, era “un film molto complicato, fiacco, in cui passa quasi mezz’ora prima che appaia una figura umana sullo schermo […]. E’ così totalmente assorbito nei suoi stessi problemi, nell’uso del colore e dello spazio, nella devozione fanatica per i dettagli fantascientifici, da apparire in qualche modo tra l’ipnotico e l’immensamente noioso” (così sul New York Times del 4 aprile). E se per Andrew Sarris del Village Voice era semplicemente “un disastro”, quasi tutte le recensioni ruotavano intorno a due aggettivi ricorrenti: impenetrabile e noioso. Le aspettative erano alte – a parte la Kael, mai tenera con i film di Kubrick – tanto più forte la delusione. Il regista, che all’epoca aveva 39 anni ed era già considerato un maestro del cinema americano nonostante i suoi due ultimi successi, Lolita e Il dottor Stranamore, fossero stati girati in Inghilterra, era riuscito inconsapevolmente a spiazzare la maggior parte dei critici. Ancor prima di giudicare il film non sapevano bene come maneggiarlo: quello che vedevano non era il “tipico” film d’autore europeo, né il “tipico” prodotto del cinema americano: si appoggiava sì a un genere, come piaceva a Hollywood, ma ne scardinava i confini e certe caratteristiche strutturali, e non poteva contare nemmeno sulla presenza di un divo come protagonista. Per dire che cosa poi?
Il regista tagliò subito 19 minuti. Restavano quasi due ore e mezzo di film in cui il parlato occupa solo 54 minuti. La Mgm vicina al ritiro
A Kubrick, che era anche produttore del film e ne aveva un controllo pressoché totale, e soprattutto ai dirigenti della Metro-Goldwin-Mayer, la major che l’aveva coprodotto e lo distribuiva, bastarono i musi lunghi visti alle preview per la critica per sentirsi preoccupati. Sarebbero mai tornati i 12 milioni di dollari che, dopo quasi quattro anni di lavorazione (uno per la preparazione del soggetto, sei mesi per l’organizzazione, cinque mesi di riprese con gli attori, un anno e mezzo di lavoro per gli effetti speciali), 2001: Odissea nello spazio era costato? Per realizzare Il pianeta delle scimmie, uscito due mesi prima, in fondo erano bastati meno di 6 milioni. Il regista si affrettò in quegli stessi giorni a mettere mano alla pellicola: si chiuse in sala di montaggio e tagliò 19 minuti, poi arruolò alcuni montatori per fare gli stessi tagli su tutte le copie in circolazione negli Stati Uniti. Alla fine risultarono 139 minuti di film, di cui comunque una minima parte coperta dal dialogo: per la prima parola bisogna aspettare 25 minuti, e silenti sono pure gli ultimi 23 minuti (c’è chi ha calcolato che, tra una pausa e l’altra, il parlato occupi solo 54 minuti). In soccorso a Kubrick e agli uomini del marketing Mgm arrivò poi inattesa una pagina del Christian Science Monitor, giornale di Boston a diffusione nazionale, interamente dedicata a 2001: il critico John Allen lo definiva “un capolavoro con cui il regista ha reinventato il cinema”. Decisero di farla ripubblicare a pagamento su alcuni dei principali giornali, curando, su richiesta dello stesso Kubrick, che non sembrasse una pubblicità. Tre domeniche dopo la prima di Broadway, la pagina affiancava quella delle recensioni settimanali dei film sul New York Times. Bel colpo, anche se non proprio corretto. Ma il film stentava ancora. La Mgm cominciò seriamente a pensare di ritirarlo dalle sale. Non lo fece perché furono le sale stesse a dissuaderla. O almeno quelle in cui 2001 si proiettava su grande schermo nel formato originale, il Super Panavision 70: quanto di meglio offrisse allora la tecnologia di ripresa e di proiezione (allora e anche oggi, per quanto assai poco frequentato e poco visibile per l’inadeguatezza delle sale: si sono intravisti così, nel 70 millimetri, The Hateful Eight di Tarantino, Interstellar e Dunkirk di Nolan). Il Cinerama, la visione sull’enorme schermo ricurvo, faceva la differenza. Era lì che il film, spalancando davanti allo spettatore il suo criptico e affascinante corredo visivo, cominciava a essere percepito come un’avventura per gli occhi e per la mente, cominciava a delinearsi come film-experience.
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Non so bene quando ho visto 2001: Odissea nello spazio: non nel 1968, perché ero troppo piccolo. E’ successo sicuramente dopo l’uscita di Arancia meccanica (i film allora, certi film, tornavano nelle sale: il secondo mercato dell’home video era ancora di là da venire). Dopo Arancia meccanica, perché il mio primissimo ricordo kubrickiano è legato a questo film. O meglio, alla sua colonna sonora, arrivata in casa in forma di lp: Beethoven e Rossini rivisitati dal sintetizzatore di Walter Carlos, un altro colpo di genio – avrei capito in seguito – dopo i due Strauss e Ligeti della grande avventura spazio-temporale. Insomma, non ricordo esattamente quando ho visto 2001, ma so con sufficiente certezza di essere stato in un cinema, perché ricordo la sala buia e insieme la straordinaria combinazione iniziale di immagini e musica. Succede anche cinquant’anni dopo, quando il cinema ha ormai naturalizzato il suo passaggio in tv, che certi film sembrino poter liberare tutte le proprie qualità e la propria carica emotiva – sembrino poter vivere, in una parola – solo sul grande schermo, indifferenti alla tenuta delle proporzioni sul piccolo, alla qualità del digitale e dell’alta definizione. Forse per la generazione che era bambina quando uscì 2001: Odissea nello spazio, quando i canali tv erano due, le trasmissioni finivano prima di mezzanotte e i film erano uno solo a settimana, è difficile persino pensare che un film rimanga impresso nella memoria se visto in televisione.
Del rapporto spesso insidioso di un’opera cinematografica con il piccolo schermo ha parlato qualche mese fa sulla Lettura Davide Ferrario, e lo ha fatto scrivendo quasi un memoir basato proprio su 2001. Dal primo, impervio impatto in una sala di Bergamo all’età di 12 anni accompagnato dal padre, quando nel dicembre del 1968 il film uscì anche in Italia (“non avevamo capito molto, ma l’esperienza era stata potente e unica. Incomprensibile, ma intensa e misteriosamente evocativa…”) alla delusione, vent’anni dopo, di una prima riproposta casalinga (“in cassetta Vhs e su un 40 pollici a tubo catodico”) con gli amici cinefili: molti commenti ammirati, qualche pausa, una specie di cineforum con dibattito durante la proiezione, ma “niente di quella sera restava memorabile. Continuava a essere l’emozione della prima volta a garantirmi che 2001 era un film straordinario”.
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“Se qualcuno riesce davvero a capirlo, abbiamo fallito. Volevamo fare domande più che dare risposte” (Arthur C. Clarke)
Il richiamo sensoriale delle immagini, dunque, nella loro fisica grandezza. Ma non era ancora sufficiente, in quella primavera del 1968, per una netta inversione di tendenza. Fu la generazione che in quei mesi scendeva nelle piazze per contestare la guerra americana in Vietnam ad avviarla. I giovani a riempire per primi le sale. Spesso, si sarebbe scritto poi, fatti di canne o di Lsd, e perciò in sintonia con i meandri psichedelici della parte finale dell’opera, più disponibili ad abbandonarsi alle sue lentezze. “An epic drama of adventure and exploration” era il primo claim di 2001. L’anno dopo, per il rilancio del film, sarebbe diventato “The ultimate trip”. In ogni caso, al di là del film da sballo, c’era il film enigmatico che propone un’idea, avanza vagamente ipotesi senza dare risposte certe né interpretazioni univoche. L’Alba dell’uomo e il misterioso monolito nero, l’osso-arma che si trasforma nella navicella spaziale, il viaggio verso Giove e l’infinito, la stanza rococò dell’agonia di Bowman, l’astronauta sopravvissuto alla ribellione del super computer, il Bambino delle stelle. Gli alieni e Dio, forse. “Se qualcuno riesce a capire davvero 2001: Odissea nello spazio, abbiamo fallito. Volevamo fare domande più che dare risposte”, disse lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke, che aveva collaborato con Kubrick alla sceneggiatura partendo dal suo racconto La sentinella. E il regista, quando Playboy qualche mese dopo l’uscita gli chiese “può dirci qualcosa sulla sua interpretazione del film?”, “no”, rispose, “l’ho già detto il perché. Quanto ci piacerebbe la Gioconda se Leonardo ci avesse scritto sotto ‘Questa signora sorride poco perché ha un dente marcio’, o ‘perché sta nascondendo un segreto al suo amante’? In questo modo avrebbe sbattuto la porta in faccia all’interpretazione dello spettatore. Non voglio che succeda a 2001: Odissea nello spazio”. Era ciò che cercavano anche i giovani spettatori di quel tormentato 1968: la libertà di trovare, ciascuno per proprio conto, il senso di una “storia” per sua natura ambigua e sfuggente. In più, consonante con i tempi, la magnifica ossessione di Kubrick per il background culturale e tecnologico di un film traduceva sullo schermo – nel modo più credibile, possiamo ben dirlo oggi – l’ottimismo scientifico degli anni Sessanta: tra i fisici, i filosofi e gli accademici intervistati prima della realizzazione del film, alcuni erano davvero convinti che entro il fatidico 2001 avremmo avuto dei calcolatori elettronici dotati di un’intelligenza paragonabile a quella umana (come Hal 9000). E in molti pensavano che i vari programmi di esplorazione spaziale sarebbero proseguiti a ritmo serrato e che entro i primi anni del XXI secolo l’uomo avrebbe iniziato a colonizzare il sistema solare.
Le meraviglie del 70 millimetri. Le canne e l’Lsd nelle sale. La libertà di dare un senso: all’Alba dell’uomo, al Bambino delle stelle
2001: Odissea nello spazio ottenne solo un Oscar, per gli effetti speciali, ma rimase in programmazione per 51 settimane all’Uptown Theater di Washington, dov’era stato presentato la prima volta. A Los Angeles, dopo 80 settimane al Warner Hollywood cambiò sala e ne fece altre 23 a Beverly Hills: quasi due anni di programmazione ininterrotta. La pellicola, copie nuove nel formato originale, “in tutta la sua gloria analogica” ha detto Christopher Nolan che presenterà l’evento, tornerà al Festival di Cannes il 12 maggio e poi in alcune sale degli Stati Uniti. Anche il regista di Dunkirk, come Davide Ferrario, ha visto per la prima volta il film con il padre. Da ragazzo, al Leicester Square Theater di Londra, e se lo ricorda ancora. Capitasse di nuovo al cinema anche in Italia, varrà la pena di essere noi, diventati padri, a portarci i nostri figli.
Politicamente corretto e panettone