Ready Player One è il miglior Spielberg dai tempi di E. T.
Il film riesce a dire tutto ciò che noi non riusciamo a dire: “Tornate a terra!”
Spielberg è un vecchio ragazzo e anche un eterno gamer, ha raccontato che il suo primo gioco era stato “Pong”, ci giocava sul set dello Squalo,1974. Come tutti i gamer adora gli avatar, ne ha un sacco sparsi nei suoi film. Ma come tutti i nerd geniali che popolano il suo cinema è affezionato agli avatar meno blockbuster, a volte meno riusciti. Gli piace l’avatar dell’Autore, del Pedagogo, il cinema come forma di impegno civile. Quello di Schindler’s List o Lincoln, ma anche quello a volte zoppicante di altre sue tirate liberal. Il suo avatar migliore – il bambino che pesca sogni dalla luna nel logo di DreamWorks, il bambino che vola in bicicletta in quello di Amblin – è invece quando diventa mago dentro le sue stesse storie, torna il ragazzo sognatore dei suoi film fiaba.
Sui bambini di Spielberg sì è già detto tutto. Di Ready Player One, il suo ultimo lavoro, il nuovo blockbuster, il più convincente da molto tempo – è costato 400 milioni e li sta già recuperando tutti, e la metà in Cina – si può dire ogni cosa. Paolo Mereghetti ha scritto sul Corriere che “una tale massa di rimandi finisce per cancellare ogni senso”. Ma la critica appartiene a Mariarosa, qui ciò che interessa dire è soltanto che il più bel film di Spielberg dai tempi di E.T., il migliore dei suoi “Easter eggs” – aspettate ancora un attimo a entrare nel mondo dei videogiochi – intesi come “uova di Pasqua”, cacce al tesoro che nascondono un bel finale e una bella sorpresa. Perché è molto divertente. Ma soprattutto perché riesce a dire le cose che da qualche tempo una parte di noi sta provando a dire, senza riuscirci: attenzione, ci siamo inventati un mondo virtuale così coinvolgente da essere invasivo, così appagante da diventare alienante, così libero, ma poi ci accorgiamo che è manipolabile, che dovremmo non dire: basta, a che gioco giochiamo? Lanciamo allarmi sul mondo di elezioni truccate, di fake news, di account venduti, di foto rubate, di amori trovati o mollati su Facebook – il crescendo rossiniano è in ordine di importanza: l’importante siamo noi, non il fottuto mondo. C’è bisogno di un aggancio sulla terraferma. Una via d’uscita.
La trama è nota. Nel 2045 il mondo fa così schifo che tutti preferiscono passare più tempo che possono nel mondo virtuale, che nel film si chiama Oasis. Ma il sogno di Wade Watts, il nerd protagonista, è vincere il gioco di James Halliday, il creatore di Oasis. Uno Zuck che ce l’ha fatta (o che si è pentito in extremis?) che prima di morire ha deciso di regalare la sua azienda a chi vincerà. Watts, più che altro, lo ama, questo fantasma del padre. Vuole vincere per lui. Ma dovrà sconfiggere i Cattivi – la multinazionale che vorrebbe controllare il mondo reale attraverso il mondo dei sogni. Per vincere, Watts troverà degli amici veri, sfigati come lui, nella vita reale.
E’ un’antologia della cultura pop, un gioco sui giochi, una selva di citazioni per cinefili. Ma è tutt’altro che un film vecchio. Spielberg dopo aver letto la sceneggiatura si è detto: “Sono rimasto completamente affascinato dall’idea di questa contrapposizione di due mondi… mi ha davvero sconvolto perché era così profondo e così stratificato. Era esoterico; faceva paura; era accessibile, mi ha conquistato”. Stratificato, esoterico. Nella filosofia spielberghiana il messaggio è sempre messianico, buono. Così l’avatar s’è messo in azione. Che cos’ha di importante Ready Player One? Che riesce a dire tutto questo – che la realtà è migliore della virtualità, che la condivisione è meglio dell’alienazione – al pubblico, soprattutto i giovani (molti ragazzini che non hanno mai visto un Atari a divertirsi in sala). Riesce a essere popolare e a far passare un contenuto complesso, positivo, là dove infiniti sforzi di giornali, educatori, e persino politici non sanno arrivare. I bambini di E.T. volavano in cielo con le loro biciclette. Questa volta invece atterrano nel mondo reale, che non è così male.