Al cinema con Reagan
La differenza fra il presidente che capiva l’America con Hollywood e il reality non-stop di Trump. Un libro
New York. Una sera del giugno 1983, a Camp David, Nancy e Ronald Reagan hanno guardato, tenendosi come al solito per mano, “WarGames”, il film di John Badham con Matthew Broderick nella parte dell’hacker che penetra nei sistemi del dipartimento della Difesa e per poco non fa scoppiare la terza guerra mondiale. Il consigliere di Reagan Mark Weinberg riferisce che in sala, fra i pochi presenti, è calato un “silenzio inusuale” di fronte al racconto non proprio fantascientifico di una guerra per via cibernetica. Il presidente si è fatto un appunto mentale degli scenari della cybersicurezza che il film apriva. Qualche giorno dopo, in un incontro con i democratici del Congresso, Reagan ha evocato il maldestro hacker di “WarGames” per difendere il rinnovo degli investimenti sul sistema antimissilistico della Casa Bianca. Il presidente-attore non osservava il cinema soltanto attraverso la lente dell’intrattenimento. Weinberg ha raccolto una vasta aneddotica sulle abitudini cinematografiche dei Reagan nel libro “Movie Nights With the Reagans”, un incrocio fra un nostalgico memoir e la cronaca pop di un’epopea politica.
In materia di film, i Reagan seguivano una liturgia ferrea: ogni fine settimana in cui il presidente non era in viaggio radunavano una cerchia ristretta di amici e collaboratori nell’Aspen Lodge. Appuntamento alle 8, il titolo lo sceglieva Nancy, privilegiando le pellicole più recenti. In otto anni di presidenza i Reagan hanno proiettato a Camp David 363 film. Il presidente si è esaltato per “Top Gun”, ha apprezzato il “Ritorno dello Jedi” – anche se non ci ha visto i collegamenti con la sua iniziativa per la difesa strategica che tutti indicavano – si è lamentato della scena di “9 to 5” in cui Dolly Parton, Jane Fonda e Lily Tomlin fumano una canna (“sarebbe stata davvero divertente se si fossero ubriacate”) e ha guardato di traverso “Ritorno al Futuro”, specialmente la famosa battuta in cui il Doc del 1955 si rifiuta di credere che Reagan sarebbe diventato presidente: “E magari Jane Wyman è la first lady!”. C’è l’intero spettro dei gusti e delle inclinazioni reaganiane, in questo libro, ma si trova anche qualcosa di più, cioè il senso del presidente per lo spirito popolare. Quelle due ore a settimana erano una finestra aperta sul sentire dell’America, la connessione che il più cinematografico dei presidenti cercava con le passioni del demos, una specie di seminario continuo sulla cultura pop in cui Reagan era contemporaneamente professore e studente.
“Movie Nights With the Reagans” assume un valore storico e comunicativo ulteriore se letto mentre, con la coda dell’occhio, si monitora l’account Twitter di Donald Trump. Lui è un’altra e certamente più triviale figura dello spirito americano, ma una delle sue ossessioni permanenti in mezzo al mare in tempesta degli uomini è quella di rimanere sintonizzato sul sentimento popolare che come pochissimi altri è riuscito a suscitare e incanalare. Per farlo segue una dieta ferrea di quattro ore al giorno di televisione, che in certi fine settimana a Mar-a-Lago diventano anche di più, conditi da reazioni live, cinguettii, sceneggiate e paturnie aggiornate all’èra del double screen. A Reagan bastava guardare, con attenzione, un film ogni fine settimana.