A Cannes sbarcano i russi e il “Donbass” di Loznitsa è da brivido

Mariarosa Mancuso

Nel film tredici episodi illustrano miseria, soprusi, violenze, corruzione, linciaggi, vendette, posti di blocco, bombe e sparatorie tra i nazionalisti ucraini ai filorussi

Cannes. Sono arrivati i russi. Non potrebbero essere più diversi. Sergei Loznitsa aveva portato l’anno scorso a Cannes un film che vantava agganci con “La mite” di Fëdor Dostoevskij (in uscita da Adelphi la nuova traduzione di Serena Vitale). Titolo internazionale, “A Gentle Creature”: la fatica di visitare un marito in carcere, quando basta uno spintone su un autobus per far litigare i passeggeri sull’immortalità dell’anima. Suo anche “Austerlitz”, che gli agganci li vantava con il libro di W. G. Sebald sull’Olocausto: senza una parola di commento, mostrava i visitatori in un campo di sterminio, a farsi il selfie con la scritta “Arbeit Macht Frei” sullo sfondo (seguono commenti su TripAdvisor).

 

Kirill Serebrennikov è l’unico regista che la Festa del Cinema di Roma può vantarsi di avere lanciato. Con “Playing the Victim” vinse il Marc’Aurelio d’oro nella prima edizione, anno 2006 (ora magari potrebbero sostituirlo con un più leggiadro fenicottero, omaggio a Paolo Sorrentino). Trama: un giovanotto vivacchia impersonando le vittime di incidenti, stradali e no, per conto della polizia che indaga. Due anni fa il regista era in concorso a Cannes con “Parola di Dio”, monito contro i pericoli del cattolicesimo integralista. Etichettato come “enfant terrible del teatro russo”, dallo scorso agosto è agli arresti domiciliari per malversazione (perché difende la comunità gay, e perché Putin sostiene le arti, ma solo se fanno propaganda, controbattono gli amici). Non è potuto venire a Cannes come non verrà l’iraniano Jafar Panahi (ai domiciliari pure lui, con il divieto di girare film che già ha aggirato almeno una volta).

 

Schierati i contendenti, anche il Festival decide su chi puntare. Piazza “Leto” di Kirill Serebrennikov in concorso e “Donbass” di Sergei Loznitsa nella sezione parallela “Un Certain Regard”. Visti i film, sarebbe stato meglio il contrario. Tanto “Donbass” tiene attaccati allo schermo, con le sue cronache dalla guerra in Ucraina (neanche sarebbe il nostro genere prediletto, a dire la verità). Tanto “Leto” chiama le forbici del montatore, mentre racconta la vita breve e maledetta di Viktor Coj, dei Kino che in Unione sovietica erano famosi come i Beatles, della scena rock nella Leningrado anni 80. “I giovani pieni di speranza che si opponevano al grigiore” – dice il critico collettivo – e invidiavano i coetanei dell’ovest che potevano comprarsi i dischi, invece di passarsi mediocri registrazioni su nastro. Da qui gli applausi, anche per un triangolo alla Jules e Jim (con pupo, bagnetto, sincerità di coppia). La commozione quando arriva la scritta finale – “dedicato a quelli che amano”. Le cover (“Perfect Day” di Lou Reed, tra le altre, ed è la più assurda) che spezzano il bianco e nero.

 

  

In “Racconti dall’età dell’oro”, il rumeno Cristian Mungiu aveva raccolto le leggende metropolitane fiorite sotto Ceausescu. In “Donbass”, tredici episodi – debolmente legati da personaggi che ricompaiono da una scena all’altra – illustrano miseria, soprusi, violenze, corruzione, linciaggi, vendette, posti di blocco, bombe e sparatorie tra i nazionalisti ucraini ai filorussi. E propaganda, o fake news come si dice oggi: vediamo le comparse al trucco, nella roulotte. Le ritroviamo in piazza, davanti a un finto autobus mitragliato, intervistate dalla tv. Stacco su un politico preso a secchiate di merda, sempre con telecamere accese. Stacco su un giovanotto che va alla stazione di polizia perché gli hanno ritrovato il suv, e se lo vede requisire “se dobbiamo difendervi dal fascismo qualcosa dovete darci”. Finale da brivido. Per i buoni sentimenti e la meglio gioventù, rivolgersi a Kirill Serebrennikov.

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