Impegno e didattica prendono troppo la mano nel BlacKkKlansman di Spike Lee
Al festival di Cannes ci sono anche i poveri ma non quelli “ideologici”
Cannes. I membri incappucciati del Ku Klux Klan partono in missione, e subito litigano. “Non vedo nulla con questo cappuccio, sono sbagliati i buchi per gli occhi” si lamenta uno. “La prossima volta i cappucci falli cucire da tua moglie”, ribatte un altro sempre cavalcando. Segue rissa. E’ una delle scene più divertenti di “Django Unchained”, il film di Quentin Tarantino uscito nel 2012 (siamo andati a controllare, con l’accresciuta permalosità di oggi siamo al limite della denuncia per oltraggio). E’ vera e documentata invece – anche se potremmo crederla una sequenza scritta per quel film e poi eliminata – la storia raccontata da Spike Lee in “BlacKkKlansman”, secondo regista americano in gara per la Palma d’oro.
Un nero infiltrato nel Klu Klux Klan, negli anni 70 delle Black Panthers che volevano incendiare l’America e raccoglievano fondi in casa di Leonard Bernstein (alla festa c’era anche Tom Wolfe, per loro sfortuna, e li consegnò tutti alla storia come radical chic). Si chiamava Ron Stallworth, lavorava come poliziotto a Colorado Springs. In archivio, perlopiù. Neanche amatissimo dai colleghi. Finché gli venne l’idea di infiltrarsi nell’organizzazione – guai a pronunciare il nome del Klan. Cominciò con una telefonata: gli insulti razziali li conosceva bene, glieli avevano rivolti centinaia di volte. Serviva una controfigura per presentarsi agli appuntamenti. Trovò un collega ebreo – gente che l’organizzazione disprezzava quanto i negri.
Adam Driver, appunto il collega ebreo che sbriga la parte pericolosa del piano, ha la faccia troppo moderna per l’ambientazione anni 70. I neri invece sono da cartolina: certe pettinature afro, se il regista non fosse Spike Lee, sarebbero considerate una caricatura. Era riuscita meglio la serie “She’s Gotta Have It”, che riprendeva il film del 1986 “Lola Darling”. Qui l’impegno e la didattica prendono la mano. “Nascita di una nazione” di David W. Griffith viene additato come causa dei linciaggi. Il montaggio incrociato tra Harry Belafonte che racconta le crudeltà e l’iniziazione con i cappucci va troppo per le lunghe. Ogni volta che i razzisti dicono “America First” il critico collettivo pensa a Donald Trump: il messaggio è passato, Spike Lee può dormire tranquillo.
Era il Cannes delle donne, ma il film di Debra Granik siamo andati a cercarlo alla Quinzaine des Réalisateurs, la sezione autogestita dai registi e nata dopo il maggio 68, quando i registi medesimi fecero chiudere il festival. Si intitola “Leave no Trace”, racconta un padre e una figlia che vivono accampati in un parco vicino a Portland: pietra focaia per risparmiare i fiammiferi e funghi per cena. Un piccolo errore (non hanno cancellato bene le tracce del loro passaggio) li fa scoprire dai servizi sociali che dopo una serie di test cercano di riportarli alla civiltà. Papà fa il muso, la tredicenne meno.
In “Un gelido inverno” – stessa regista, anno 2010 – Jennifer Lawrence scuoiava e cucinava scoiattoli per i fratellini affamati. Poveri, anche qui, pure di più (il padre è un reduce di guerra, altro non si sa). Ma sono poveri e basta. Non sono i poveri “ideologici” del cinema italiano, resi tali dalla società e dalla globalizzazione, quindi puri di cuore e vicini a Dio. Oppure alla Madonna, che appare a Alba Rohrwacher – sempre lei – nella commedia “Troppa grazia” di Gianni Zanasi (anche questa alla Quinzaine). Prima la scambia per una mendicante. Poi pensa di essere matta. Poi capisce che la signora con il velo blu e l’accento straniero vuole una chiesa là dove il sindaco, in combutta con gli ingegneri, vuole costruire un complesso residenziale non a norma.
Politicamente corretto e panettone