Viva Lenny Bruce
Comico maltrattato e padre di tutti gli scorrettismi politici, così lontano da chi ce l’ha con i “negher”
L’ultima volta lo abbiamo visto in “La fantastica signora Maisel”, sconsigliava il lavoro del comico: “Non dovrebbe esistere, come il cancro e Dio. Preferirei lavare i panni del Ku Klux Klan, ritrarre bambini storpi, lavorare al mattatoio, ma altro non so fare per campare”. Mrs Maisel, elegante signora dell’Upper West Side che si scopre un talento da cabarettista raccontando come e perché il marito l’ha lasciata, non si scoraggia. Si incontrano alla stazione di polizia dell’8° distretto. Lei aveva mostrato le tette al pubblico, per essere più convincente (“chi non vorrebbe tornare ogni sera a casa da queste?”). Lui era un veterano anche degli arresti. Capitava spessissimo, per turpiloquio e insulti razziali. Occasionalmente, per uso di stupefacenti. “Come parlare sporco e influenzare la gente” è il titolo della sua autobiografia. Ristampata da Bompiani, che non porta pena per il titolo: letto oggi potrebbe stare sul manifesto dei populisti, nel 1974 non lo si poteva immaginare.
Non c’è nulla di più distante da Lenny Bruce del reddito di cittadinanza e dei “negher” (copyright Giuliano Ferrara) da rimandare in Africa. Ripeteva la parola con la enne fino allo sfinimento, nei suoi spettacoli. Convinto che così ne avrebbe azzerato il potenziale insultante. Faceva lo stesso con i più tremendi nomignoli per italiani, ebrei, asiatici. A parlare di sesso aveva imparato dalla signora Janesky, una vicina di casa che riceveva molte buste con la stampigliatura “personale”. Dentro c’erano libri di educazione sessuale per adulti, da cui la dirimpettaia ricavava “chicche di erotismo popolare”.
Abbastanza vicine alla battuta che Amy Schumer (assieme a Sarah Silverman nella scia di Lenny Bruce) fu costretta qualche anno fa a ritrattare: “Una volta uscivo con ragazzi messicani. Ora preferisco il sesso consensuale” (si era prima del #MeToo, e prima che Woody Allen si proponesse con doppio salto mortale come campione di rispetto per le donne, da mettere sui manifesti: “Ho lavorato con tante attrici, nessuna si è mai lamentata”).
Una scena da "Lenny" di Bob Fosse, in cui Lenny Bruce-Dustin Hoffman (doppiato da Gigi Proietti) spiega come secondo lui si possono combattere gli atteggiamenti razzisti
Il debutto fu disastroso, Lenny Bruce faceva un numero assieme a sua madre che aveva messo su una scuola di ballo e si era fatta insegnare la “rubber legs” da un inquilino indietro con l’affitto. Da reduce di guerra – il nome vero era Leonard Alfred Schneider – percepiva un magro sussidio. Cominciò a fare il giro degli agenti di Manhattan specializzati in dilettanti: comici che si mescolavano tra il pubblico e alle serate “open mic” (aperte a chiunque se la sentisse di salire sul palco) perché la serata non fosse troppo moscia. Forse vale per tutte le attività umane, ma la sopravvalutazione che le persone hanno delle proprie capacità comiche – o romanzesche, di entrambe abbiamo esperienza diretta – è clamorosa. A 25 anni “era uscito” con 250 ragazze. 500 se contiamo anche quelle con cui non era tecnicamente “uscito”: le aveva incontrate nei camerini dove non avevano di meglio da fare aspettando che asciugasse lo smalto sulle unghie. Nel 1951, considerando finito l’apprendistato, sposò una spogliarellista di nome Honey.
In una delle due prefazioni aggiunte nella nuova edizione – a sostituire la vecchia prefazione di Daniele Luttazzi, uno tra i tanti che si sono proclamati invano suoi eredi – Lewis Black fa notare che Lenny Bruce veniva arrestato per le sue battute. Quindi, aggiunge rivolto ai comici d’oggi: “Non lamentatevi per la difficoltà del lavoro”. Dimentica che la battaglia contro la correttezza politica, cominciata negli anni 60 senza farsi troppo notare, è stata vinta dalla correttezza politica, che con mossa geniale ha avuto l’astuzia di accreditarsi come progressista. Negli anni Sessanta e Settanta, chi aveva letto un libro più degli altri stava con Lenny Bruce, certo non con i suoi censori o i poliziotti che lo arrestavano. Le battute e i monologhi arrivano in fondo. Con i verbali dei processi per oscenità. L’accusa va di perifrasi per non dover ripetere le parole incriminate. Il difensore chiama a difesa dell’imputato Rabelais, Jonathan Swift, Aristofane.