Quale Festival vincerà la guerra con Netflix?
Il 29 agosto, inaugurazione della Mostra di Venezia, scopriremo cosa ha spinto il regista di “La la land” Damien Chazelle a girare un film su Neil Armstrong
Il 29 agosto, inaugurazione della Mostra di Venezia, scopriremo cosa ha spinto il regista di “La la land” Damien Chazelle a girare un film su Neil Armstrong, l’uomo che nel 1969 calpestò il suolo lunare. Difficile che “First Man” sia un musical, sull’astronave lo spazio è risicato. Ma sicuramente il genietto che ha inventato la meravigliosa scena con Emma Stone e Ryan Gosling in gita romantica al planetario di San Francisco, saprà stupirci.
Speriamo non tornino all’attacco i negazionisti convinti che tutto fosse finto, ricostruito in uno studio televisivo come si vede in “Capricorn One” di Peter Hyams con Elliot Gould. Aggravante: il governo americano avrebbe fatto girare il filmato a Stanley Kubrick. Il regista, oppresso dal senso di colpa, avrebbe disseminato gli indizi di Pollicino nel bosco di “Shining”, per svelare la verità a chi non se la beve (come racconta il documentario principe della dietrologia cinematografica, “Room 237” di Roy Ascher).
La figlia è intervenuta per difendere l’onore del padre – ma vi pare che il regista di “Il Dottor Stranamore” abbia potuto fare una cosa simile? Inutile: son furbacchioni che quando vedono Steven Spielberg seduto sulla carcassa plasticosa di un dinosauro durante le riprese di “Jurassic Park” (il primo, anno 1993, ora sono creature computerizzate) strillano contro la caccia.
Mezzo secolo è passato, da quando il generale Jack D. Ripper (suona come Jack The Ripper, Jack lo Squartatore, l’attore era Sterling Hayden) – vale a dire colui che “aveva imparato a non preoccuparsi e ad amare la bomba” (nucleare) – mandava i B-52 contro l’Unione sovietica, in assenza di qualsivoglia minaccia. Là dove una volta c’era il pulsante rosso, da non toccare pena la distruzione del mondo, oggi ci sono le doppie negazioni. I registi sbattono la testa contro il muro, e cercano altre storie.
Boots Riley, rapper nero piuttosto arrabbiato, le trova nelle vendite telefoniche, nel suo film “Sorry to Bother You”. Fate conto: Spike Lee agli inizi della carriera, quando i messaggi non li affidava alla voce di Harry Belafonte, che si incarica dello spiegone in “BlacKkKansman”. Era a Cannes e che sarà a Locarno, mentre nessuno ha annunciato (ancora) il film del rapper applaudito al Sundance.
Il festival cinematografico che ridurrà lo sfasamento – la Mostra di Venezia ci sta provando, meno Arte e più film da Oscar che non fanno scappare gli spettatori – vincerà la guerra con Netflix. Intanto Boots Riley gode il successo, arrivato dopo cinque anni di sforzi (per primo, apprezzò la sceneggiatura Dave Eggers). Altre occasioni non ci saranno. Un nero che fa la voce da bianco per vendere meglio e più in fretta ha poche chance dove il doppiaggio regna sovrano. Nella nostra antologia, sta già vicino al finto Berlusconi che in “Loro” di Paolo Sorrentino seduce telefonicamente la casalinga.