Poche emozioni a Locarno
Nel festival cinematografico che termina oggi il materiale scarseggia. L'unico film degno di nota è del regista israeliano Yona Rozenkier
Nel 1983 Spike Lee vinse un Pardo di bronzo al Festival di Locarno con “Joe’s Bed-Stuy Barbershop: We Cut Heads”. Era la sua tesi di laurea alla Tisch School of Arts di New York, girata con diecimila dollari che gli aveva dato la nonna. Ang Lee, suo compagno di corso, fu arruolato come assistente alla regia. Degli altri premiati quell’anno si sono perse le tracce.
Se andiamo a guardare i Pardi d’oro più recenti, solo miseria e desolazione. L’anno scorso fu premiato “Mrs Fang” del cinese Bing Wang (e dire che c’era in concorso “Lucky” con il simpatico vecchietto Harry Dean Stanton, lo vedremo in qualche sala italiana il 30 agosto). Due anni fa vinse “Bezbog” di Ralitza Petrova, deprimente film bulgaro con un’infermiera a domicilio che rapinava i vecchietti dei loro risparmi.
Quest’anno le speranze di chi ama il cinema sono riposte nei giurati Emmanuel Carrère e Sean Baker, il regista di “Tangerine” e “Un sogno chiamato Florida”. Purtroppo il materiale a disposizione scarseggia. A cominciare dall’interminabile “La Flor” di Mariano Llinas, 14 ore di durata - per questo veniva somministrato in pilloloni da un’ora e mezza.
“Un atto d’amore verso il cinema”, così il film era annunciato nel programma. Alla prova dei fatti, un’esibizione di narcisismo del regista argentino, che un po’ scopiazza i generi popolari (ma come usano fare i sedicenti artisti, rallentando e sabotando la fantascienza o il musical). Un po’ mette in scena un regista che molla le sue attrici e il già scarso copione per riprendere alberi, alberi, alberi.
Una scelta non masochista si riduce a un paio di titoli, e anche questi richiedono cautela prima di essere consigliati allo spettatore. In “Diane” dell’americano Kent Jones (suo il documentario “Hitchcock/Truffaut”) una bravissima Mary Kay Place (finora in ruoli da caratterista) bada a un figlio drogato, oltre ad altri barboni e bisognosi. In “Ray & Liz”, il fotografo britannico Richard Billingham pesca episodi raccapriccianti dalla sua infanzia: lo hanno cresciuto un padre alcolizzato e una madre violenta che vivevano di sussidi. Roba da film di Ken Loach, senza il carico dell’ideologia anticapitalista. Aprono e chiudono le immagini del padre Ray come è adesso, tre bottiglioni di birra artigianale solo per alzarsi dal letto. Gli altri film erano peggio, fidatevi.
Lo Spike Lee di quest’anno - è l’unica vera scoperta del festival - era relegato nella sezione “Cineasti del presente” (il concorso B, dovrebbe ospitare i film sperimentali e fuori formato). Opera prima del regista israeliano Yona Rozenkier, “The Dive” di sperimentale non ha nulla. È un film scritto benissimo, ambientato in un kibbutz dove i fratelli Rozenkier - tutti e tre in scena, nella parte di se stessi - si ritrovano a seppellire il padre, due giorni prima che il più giovane parta per la guerra.
Politicamente corretto e panettone