“Beauty” è un grande musical sul mondo dickensiano
Il cortometraggio di Nicola Abbatangelo intreccia un po’ di magia con una storia di padri e di figli. Una sfida azzardata (e riuscita), più che mai in Italia, dove tranne casi rarissimi il coraggio non abbonda
Un film di mezz’ora, ambientato nella Londra ottocentesca da ricostruirsi in un teatro di posa, cast di attori internazionali. Davanti a un simile progetto, proposto da un regista & sceneggiatore non ancora trentenne al suo primo film, un produttore sviene. Prima ancora di sapere che si tratta di un musical, con canzoni composte a Los Angeles e suonate da un’orchestra di 40 elementi. Chiunque troverebbe la sfida azzardata. Più che mai in Italia, dove tranne casi rarissimi il coraggio non abbonda (giudichiamo dalle solite storie, recitate dai soliti attori, che sgomitano per uscire in sala tutte assieme).
Beauty Trailer from Moolmore Films on Vimeo.
Il musical – assai dickensiano, a cominciare dai nomi dei personaggi: Stick, Anvil, Chisel, Sickle – esiste e si intitola “Beauty”. Recitato in inglese, è stato presentato in anteprima al Festival di Giffoni e sarà in concorso nella sezione cortometraggi di “Alice nella città”, sezione indipendente della Festa di Roma. Lo ha scritto e diretto il trentenne (oggi) Nicola Abbatangelo, che assieme ad altri soci nel 2015 ha fondato la casa di produzione Moolmore, altro nome di gittata internazionale. Come è giusto fare, se non si vuole esordire come registi di cortometraggi e restare a vita registi di cortometraggi, ma – chi può dirlo? – cominciare come la Pixar con le avventure di una lampada e diventare una garanzia di genialità e spasso.
“Beauty” è stato girato interamente a Roma, messo in cantiere quando “musical” al cinema voleva dire “Les Miserables” di Tom Hooper, con Hugh Jackman e Anne Hathaway (su Russell Crowe e la sua goffaggine canterina meglio non infierire). Non era come oggi, che abbiamo tutti adorato “La La Land” di Damien Chazelle. Quasi tutti, ci son sempre i malmostosi che non amano i musical. Nicola Abbatangelo, che il genere lo ama almeno quanto noi, dice di non sopportare più chi fa le smorfie e dice “non capisco perché a un certo punto cominciano a cantare”. Per convincere i refrattari, gli attori – tra cui Sylvester McCoy, Radagast in “Lo Hobbit – hanno cantato davvero sul set, evitando il playback. Non è un vezzo: è l’unico modo perché il “cantato” abbia i ritmi del “recitato”.
La sfida è riuscita benissimo. “Beauty” intreccia un po’ di magia con una storia di padri e di figli, spesso separati da una parete, come in uno split screen. Seguirà presto – Nicola Abbatangelo lo sta scrivendo – un lungometraggio. I film fuori formato, e pure in bianco e nero, nei cinema non circolano.
Politicamente corretto e panettone