Michael Moore al Festival del Cinema di Roma (foto LaPresse)

Michael Moore nella Roma dei populismi a 5 stelle

Marianna Rizzini

“Come cazzo è successo?”. Al netto della retorica apocalittica, Fahrenheit 11/9 racconta le ragioni e i possibili antidoti all’avvitamento populista

Roma. Come ci si ritrova con un governo (o presidente) populista? La domanda corre, non da oggi, dall’Europa all’America e viceversa, e risuona nella testa dello spettatore mentre assiste, alla Festa del Cinema di Roma, alla proiezione dell’ultimo film documentario di Michael Moore (“Fahrenheit 11/9”, distribuito da Lucky Red e in sala per tre giorni fino a domani): proiezione che – coincidenza – è in programma proprio in contemporanea con la prima giornata della prima festa nazionale a Cinque stelle dell’epoca gialloverde. La scena è questa: sta per iniziare il film di Moore sull’ascesa di Donald Trump e mentre si spegne il cellulare si legge che al Circo Massimo, sul palco del M5s, sta arrivando il vicepremier Luigi Di Maio. Si spegne il cellulare e il “come cazzo è successo?” di Michael Moore, non riferito a Di Maio ma alle ultime presidenziali americane, diventa giocoforza sovrapponibile ai tanti “come cazzo è successo?” che molti non populisti italiani, non necessariamente fan di Michael Moore, pronunciano un giorno sì e uno no dal 4 marzo 2018.

       

      

E non importa che Michael Moore sia Michael Moore – il regista di “Fahrenheit 9/11”, j’accuse su George W. Bush con cui ha vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 2004 – e non importa neanche che Moore abbia appena espresso pubblicamente, sempre alla Festa di Roma, la sua avversione per il Matteo Salvini “razzista e bigotto”. Il punto è il suo film (che racconta nella prima parte storie dall’America profonda e arrabbiata che vale la pena di conoscere e storie dall’America mediatica e minimizzatrice su cui vale la pena di riflettere), ma è anche il film che scorre fuori: quella festa dei Cinque stelle populisti di governo fatta come se ancora fossero populisti di piazza, con surrealtà di interventi su “manine” e condoni, complotti e conversioni (conversioni al verbo di Rousseau, futuro e fuffa, fuffa e futuro: c’è Davide Casaleggio che di futuro parla mentre i suoi al potere rischiano di superare ogni possibile prefigurazione sulle futuribili distopie).

      

  

E Moore, al netto della retorica con cui, alla fine del film, prende la strada dell’invettiva con paragone apocalittico con il nazismo, ha trovato storie per raccontare in parte le ragioni e in parte quelli che considera i possibili antidoti all’avvitamento populista – e quindi i rassegnati-non rassegnati ex obamiani delusi di Flint, cittadina simbolo del crollo di un certo sogno americano; i proletari-intellettuali (insegnanti) che, sospesi tra democratici e repubblicani non molto in ascolto scioperano per la prima volta in vita loro; i giovani dem rottamatori porta-a-porta; l’ex reduce di guerra, novello “red-neck”, che corre alla testa di camionisti e impiegati per l’elezione di midterm; la dottoressa coraggio; i giovanissimi ribelli anti possesso d’armi, studenti di liceo che radunano in piazza orde di persone via whatsapp, dopo l’ennesima strage a scuola per mano di un singolo armato, nel paese dell’arma tenuta in casa per potenziale “legittima difesa”.

  

E quasi quasi si invidia a Moore il suo momento stranamente (per Moore) speranzoso, nonostante l’allarme di Moore per la democrazia americana agonizzante nell’astensionismo, guardando il documentario nei giorni tragicomici delle “manine” (al Circo Massimo anche in versione gadget rumoroso agitabile – clic-clac, clic-clac– durante il comizio di Beppe Grillo). Come se ne esce?, si pensa mentre l’immagine dei possibili candidati “dal basso” al Congresso americano, presentatisi in gara come “società civile” ma comunque fiduciosi nella forza della politica-politica (e dei partiti), si sovrappongono mentalmente a quelle degli eletti “dal basso” a Cinque stelle, persone che dei partiti cosiddetti “tradizionali” e della politica-politica pensano di poter fare a meno, in nome del clic e del post (anche in guerra tra loro), salvo poi ritrovarsi al governo, ma nella realtà, in alleanze mal digerite, con pesi specifici diversi e tanti saluti all’“uno-vale-uno”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.