Per un po' d'allegria al Festival del cinema di Roma
Troppo cinema educativo, che indugia su scene poco realistiche. Poi per fortuna arriva Robert Redford
Prima di vincere l’Oscar, Barry Jenkins con “Moonlight” aveva aperto due anni fa la Festa di Roma. Torna con il nuovo film, “Se la strada potesse parlare”, tratto dal romanzo di James Baldwin: attivista per i diritti civili dei neri non da tutti amato perché parlava di omosessualità, e le Black Panther trovavano la faccenda disdicevole (il film sarà nelle sale italiane a febbraio, per un anticipo c’è il romanzo Rizzoli).
E’ l’occasione per misurare l’effetto del successo su un regista alle soglie dei quarant’anni. Oltre che per calcolare la distanza tra un libro rivoluzionario uscito nel 1974, e un film ripiegato sul melodramma, con abiti e colori che sembrano usciti dalla tavolozza di Douglas Sirk. C’è anche un tappeto di foglie cadute, per far passeggiare i due fidanzatini, ben intonate al colore degli abiti. Abbiamo capito che si amano, e lei è incinta, ma siccome conosciamo anche l’arrabbiato James Baldwin sappiamo che l’idillio non durerà. Rimane fissa la tavolozza dei colori, estesa alle tappezzerie e a certi stampati ricercatissimi: il regista li ha scelti e inquadrati con cura, notarli non è segno di cinismo bensì di rispetto per il lavoro altrui.
Voce fuori campo, purtroppo. Il difetto numero uno quando si adattano i romanzi. Tornerà e tornerà. Tish (l’attrice KiKi Layne) racconta che con Fonny (l’attore Stephan James) si conoscono da quando facevano il bagnetto insieme. La famiglia di lei festeggia il pupo in arrivo, la famiglia di lui un po’ meno. Sappiamo che Fonny è stato ingiustamente accusato di stupro, e che le giurie sono prevenute contro i neri (ma la coppia si trova un loft dove vivere, e lui comincia a fare sculture, bruttine in verità ma è il suo modo di esprimersi). La regia del miracolato Barry Jenkins – francamente, l’Oscar era un po’ troppo, anche se tra i candidati non ci fosse stato “La La Land” di Damien Chazelle – indugia su tutto. Riunioni familiari e prima notte insieme: delicata, romantica, assai poco realistica per due ventenni (anche quando le lezioni non arrivavano da YouPorn). Piacerà, farà versare lacrime, avrà un grande avvenire nelle scuole.
Il messaggio educativo vince sul cinema anche in “La diseducazione di Cameron Post” di Desiree Akhavan, regista americana di origini iraniane (nelle sale a fine ottobre). “Rieducazione” forse era un titolo pochino più invitante, per la storia di una ragazza – Chloë Moretz, bravissima come sempre, gli altri attori spariscono – mandata in una comunità religiosa che rieduca gay e lesbiche. Una serie di obbrobri, preghiere, condizionamenti, gruppi di supporto, attorno a una trama ridotta al minimo. Siamo chiamati a deplorare, e deploriamo (senza troppo entusiasmo per il cinema educativo).
Timothée Chalamet ha dichiarato che non intende passare il resto della sua vita a rilasciare autografi su pesche mature (chi ha visto “Chiamami con il tuo nome” di Luca Guadagnino capirà). In “Beautiful Boy” di Felix Van Groeningen – già regista dello strappacuore “Alabama Monroe” – fa il figlio drogato di Steve Carrell. Smette, ricomincia, smette di nuovo, ricomincia senza altri apparenti motivi che “mi fa stare bene”.
Per un po’ di allegria, finalmente, c’era alla Festa di Roma l’ultimo film con Robert Redford, gentiluomo rapinatore di banche in “The Old Man & the Gun”, scritto e diretto da David Lowery. La vera storia di Forest Tucker, molte volte arrestato e molte volte scappato dal carcere, scavando tunnel o buttandosi nel cassone della biancheria sporca. Piccolo ruolo di Tom Waits, che fa sempre notizia.
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