Il problema del cinema italiano non è Netflix
In Italia è sempre colpa di qualcun altro, chi rema contro o chi è venuto prima. Ma forse è utile farsi due domande su cosa arriva in sala. A partire dal film “Cosa fai a Capodanno?”
Sarà colpa di Netflix se gli incassi del cinema italiano calano? Urge proteggere le sale dalla sleale concorrenza delle uscite in contemporanea, come è accaduto con “Sulla mia pelle”, il film su Stefano Cucchi diretto da Alessio Cremonini? (la mossa ha provocato dimissioni e un decreto legge per garantire l’esclusiva in sala, almeno per qualche mese).
Non sarà un po’ colpa del fatto che si producono e si mandano nelle sale film come “Cosa fai a Capodanno?”. Opera prima di Filippo Bologna, annunciato sui manifesti acchiappa-spettatori come “uno degli sceneggiatori di ‘Perfetti sconosciuti’”. Giusto, è stato premiato con il David di Donatello assieme ai colleghi (cinque, compreso il regista Paolo Genovese). Ma mettersi in proprio è un rischio, anche se nel curriculum ci sono un paio di romanzi, e perfino un premio Bagutta opera prima per “Come ho perso la guerra”: aristocratico grido di dolore per una cittadina termale devastata da un imprenditore che bada solo al denaro.
Non proprio il curriculum adatto per il cinema popolare, come vorrebbe essere “Cosa fai a Capodanno?”. Ricorda, tra l’altro, “L’ultimo Capodanno”, tratto dal racconto di Niccolò Ammaniti. Regista Marco Risi, che dopo pochi giorni fece ritirare il film perché fuori dalle gli spettatori non si accapigliavano per entrare. Era sbagliata la pubblicità, disse il regista. In Italia è sempre colpa di qualcun altro, chi rema contro o chi è venuto prima (la legge dei Simpson: “Era già così quando sono arrivato”). In materia di cinema, hanno colpa il pubblico poco affezionato ai prodotti nostrani, la critica disattenta, le strettoie della distribuzione. E certo, Netflix che comodamente a casa, per un modico prezzo, ti offre “La ballata di Buster Scruggs” dei fratelli Coen, lanciato pochi mesi fa dalla Mostra di Venezia.
L’andazzo letterario si vede nella prima scena, quando Riccardo Scamarcio resta bloccato in mezzo alla neve, deve mettere le catene, e sbotta (si fa per dire) “ma guarda che situazione si è venuta a creare…”: neanche fosse Furio il marito di Magda nei film di Carlo Verdone. Perché gli esca una parolaccia, le catene gli devono tranciare di netto un dito. Aspettiamo invano che il monco e la consorte Valentina Lodovini ricompaiano, nel film. E invece no. Niente da fare. Ricompare la fede nuziale sputata dal cane che si è pappato il dito.
Alla villa intanto si prepara un’ammucchiata di scambisti. O forse no. Pareva strano che un film italiano puntasse sul sesso, a parte qualche battuta sull’albero di Natale con palle e puntale. La colta dice “Junghiano?” (inteso come psicoanalista). La coatta risponde: “Ma no, mangia di tutto”. La sofferenza delle aragoste è rubata a David Foster Wallace, un perfetto sconosciuto per il pubblico di riferimento che non accorrerà a vedere il film.
Politicamente corretto e panettone