È morto Bernardo Bertolucci, regista delle polemiche
Ultimo tango a Parigi fu messo al rogo nei libertari anni Settanta. Figurarsi cosa potrebbe accadere oggi, negli anni del #metoo
Sui film di Bernardo Bertolucci è stato bellissimo litigare. “Ultimo tango a Parigi” e “Novecento” hanno alimentato le dispute cinematografiche più appassionanti della nostra vita. Quando di un film si riusciva a parlare per ore, sfinendo i malcapitati che stavano nel divano accanto. Adesso il “mi piace” e il “non mi piace” funzionano come una guerra lampo che non prevede prigionieri. Argomentare pare fuori luogo, anche un po’ maleducato: siamo o non siamo al mondo per difendere la nostra tribù dagli attacchi dell’altra tribù?
Abbiamo litigato su “Ultimo tango a Parigi” a proposito della tirata di Marlon Brando contro la famiglia, colonna sonora nella scena del burro (così la ricordano gli spettatori, Franco Franchi usò un panetto ancora incartato per la parodia – una forma sublime di omaggio – “Ultimo tango a Zagarol”). C’erano i favorevoli e i contrari, e litigarono anche i censori: tanto dissero e tanto fecero che la Corte di cassazione ordinò la distruzione di tutte le copie – senza riuscirci. Erano i libertari anni 70, non era neanche prevedibile una rotta di collisione con il #MeToo. Bernardo Bertolucci fu privato dei diritti civili per cinque anni, a scriverlo neanche ci si crede (più o meno quel che il movimento antimolestie pretende per i registi con le mani lunghe). Il film fu poi “riabilitato” – qualsiasi cosa voglia dire la formula – e con qualche taglio anche trasmesso in tv nel 1988: il giorno dopo tutti ne chiacchieravano. Controprova: quando fu trasmesso in tv “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino nessuno andò oltre allo scambio “mi piace / a me no”, eravamo più che soddisfatti così.
Abbiamo litigato su “Novecento”, che offriva ampio materiale perché durava cinque ore e qualcosa, divise in due parti. Raccontava 50 anni di storia italiana, un paio di guerre mondiali, il fascismo, Olmo il figlio del contadino e Alfredo il figlio del padrone che nascono lo stesso giorno, il primo gennaio del 1900 (erano Robert De Niro e Gérard Depardieu). Chi non sopportava il melodramma, e chi non sopportava la citazione del “Quarto stato”, il quadro di Pellizza da Volpedo sui proletari che avanzano (più tutti gli altri dipinti a sfondo operaio e contadino somministrati al direttore della fotografia per ispirazione). Chi adorava Dominique Sanda (di cui si era già incapricciato guardando “Il conformista”) e chi era innamorato di Stefania Casini. Chi era uscito dopo la prima parte dicendo “mai più” e chi aveva visto la saga due volte.
Su “La luna”, con Jill Clayburg madre di figlio drogato, si ruppero amicizie e fidanzamenti. Tornammo a litigi più civili grazie al colossal cinese “L’ultimo imperatore”. Con le sue ventimila comparse, le riprese nella Città Proibita, il respiro della storia, l’imperatore bambino di fronte allo sfarzo del potere. I nove Oscar ricevuti, tra cui uno al regista e uno al film, posizionarono definitivamente Bernardo Bertolucci tra i maestri del cinema italiano da venerare.
L’ultima fantastica litigata fu su “The Dreamers - I sognatori”. Il film sul Sessantotto: Bernardo Bertolucci arrivò al Lido con la lancia, mostrando il pugno chiuso. In concorso, assieme a lui, il rivale di sempre Marco Bellocchio (il film era “Buongiorno notte”, sul rapimento Moro). Nel cocktail, la politica, il triangolo amoroso tra i velluti dell’appartamento parigino (lei era Eva Green), l’omaggio a Jean-Luc Godard, con la corsa tra i quadri del Louvre presa da “Bande à part”, campionissimo della Nouvelle Vague. Da allora non abbiamo più litigato sul cinema prendendoci tanto gusto, ci mancherà.
Politicamente corretto e panettone