Posso piangere? Per la Parma “prima della rivoluzione” di Bertolucci e per la bellezza
Le sceneggiature del regista erano zavorrate all’inverosimile da marxismo, psicanalisi, buddismo, sempre l’ismo del momento, e non credo per calcolo ma proprio per il gregarismo di cui sopra. Eppure il suo cinema volava
Posso piangere? Voglio piangere. Da molti mesi accarezzavo l’idea di rivedere “Prima della rivoluzione”, il capolavoro che ha ispirato Martin Scorsese e che è girato intorno a casa mia, concludendosi davanti a San Giovanni, la chiesa dove il Mercoledì delle Ceneri sono solito andare per il rito della polvere in cui ritorneremo e in cui ora è tornato Bernardo Bertolucci. Cominciavo a guardarne un pezzettino su YouTube ma poi lasciavo lì per la valanga di tristezze che subito mi travolgeva: la tristezza di vedere un film sul piccolissimo schermo del mio portatile, la tristezza di vedere il remoto reperto di un’arte moribonda (mi dispiace per gli amici cinefili ma ormai il cinema mi fa l’effetto del circo, della filatelia), la tristezza di vedere la Parma del 1964 (nessun vivo legame con la Parma presente), la tristezza di vedere l’opera di un regista che sta male e non girerà più nulla, meno che meno nella sua città natale. Che poi un pezzo pregiato di “Prima della rivoluzione” lo incontro sempre in borgo della Ghiaia, è il protagonista Francesco Barilli che oggi pesa il doppio o il triplo di cinquantaquattro anni fa ma è tutt’ora un campione della Parma che vive d’arte. Quest’estate abbiamo bevuto Lambrusco al Caffè Tano, mi ha parlato dei suoi progetti (è regista anche lui, “Il profumo della signora in nero” è di culto fra gli amanti dell’horror all’italiana) e poi di Bertolucci, col quale era rimasto in contatto e che proprio in quelle settimane aveva smesso di essere telefonicamente comprensibile. Di una frase si capiva appena una parola. Ma che cos’ha di preciso? Bah, chissà. In verità mi aveva parlato di Bernardo: nel nostro piccolo mondo parmigiano nessuno l’ha mai chiamato per cognome, non per fingere un rapporto personale che era privilegio di pochi ma per distinguerlo dal padre poeta. Bernardo e Attilio dunque, e mi dispiace per il secondogenito Giuseppe mai citato da nessuno, anch’egli regista e però meno d’impatto e nome troppo comune. Mi verrebbe da dire che fra un secolo ci si ricorderà del poeta più che del regista perché la poesia per quanto flebile è più durevole, non soffre così tanto l’evoluzione tecnologica, è meno legata al proprio tempo. Non so, forse è solo la fantasia di un gutenberghiano ostinato. O forse no: non mi sembra che il ricordo di Fellini, regista sommo se ce n’è stato uno, sia particolarmente vivo. Discorsi oziosi, me ne rendo conto, se la vedranno gli eventuali italiani dell’eventuale ventiduesimo secolo.
I dialoghi di tanti film ambiziosi degli anni Sessanta sono già inascoltabili ora e infatti “Prima della rivoluzione” è per me una sequenza di quadri: Adriana Asti sotto il portico di Borgo delle Colonne, le Fiat Millecento che da Piazza Garibaldi voltano in Strada Cavour (oggi volgarmente pedonalizzata), Cristina Pariset che applaude nel palco del Regio… Bernardo non aveva l’orecchio, aveva l’occhio. Un dono del cielo o forse non del cielo, comunque un dono. Altrimenti non si spiega come un goffo ragazzone intellettualmente gregario (del padre, di Pasolini, di tanti altri) potesse produrre immagini così perfette. Per un po’ pensai che il merito fosse tutto o in gran parte del direttore della fotografia. Poi Elisabetta Sgarbi mi impartì una lezione di cinema spiegandomi che a decidere la posizione della macchina è il regista, non l’operatore, e capii che non avrei fatto il regista e che certe sequenze da lasciare a bocca aperta non appartenevano a Storaro. Le sceneggiature bertolucciane erano zavorrate all’inverosimile da marxismo, psicanalisi, buddismo, agriturismo, sempre l’ismo del momento, e non credo per calcolo ma proprio per il gregarismo di cui sopra. Eppure il suo cinema volava. Ai suoi film bisognerebbe togliere l’audio, o almeno i dialoghi, e godersi il video, la danza della cinepresa, lo sguardo losco (oltre ogni melensa dichiarazione) sulla donna, Adriana Asti zia maliziosa e incestuosa in “Prima della rivoluzione”, Maria Schneider tettona in “Ultimo tango a Parigi”, Laura Morante idem nella “Tragedia di un uomo ridicolo”, la berbera nuda sotto le collane del “Té nel deserto”, Liv Tyler fanciullona in fiore di “Io balla da sola”, Eva Green con la fascia nei capelli di “Dreamers”…
Quattro anni fa il direttore d'orchestra e fotografo Francesco Maria Colombo venne sotto casa mia per immortalarmi intabarrato, subito dopo sarebbe andato al Regio per fotografare Bertolucci, insolitamente a Parma per un evento. Non lo seguii perché sentivo incombere questo momento, l’articolo che state leggendo, e pensavo che non mi sarebbe piaciuto scrivere il ricordo di un vecchio malato. Gli artisti vanno conosciuti da giovani e specialmente gli artisti che celebrano la bellezza. Voglio immaginare di avere conosciuto Bernardo nel ’64, davanti alla chiesa di San Giovanni mentre con la cinepresa trasportava nella storia del cinema il viso splendido di Cristina Pariset. Ed è comunque un piangere, ma è un piangere più bello.
Politicamente corretto e panettone