Cosa aspettarsi dal nuovo “Black Mirror” con finale interattivo
Speriamo che Charlie Brooker abbia fatto bene i calcoli. Cari autori, siete pregati di chiudere la storia una volta che l’avete aperta
Gira e rigira, quando serve un titolo psichedelico Lewis Carroll viene sempre in soccorso (non si sappia in giro che per hobby fotografava ragazzine, le #MeToo sarebbero capaci di spazzolare via “Alice nel paese delle meraviglie”). “Bandersnatch” – un animale feroce da cui tenersi a distanza, neppure gli illustratori son tanto d’accordo sulle precise fattezze – sta in “Attraverso lo specchio” e in “Caccia allo snark”. Era già stato usato per un videogioco anni Ottanta mai messo sul mercato, dopo una fascinosa storia di ambizioni e fallimenti. Lo risuscita Netflix per “Black Mirror: Bandersnatch” in streaming dalla mezzanotte di giovedì.
Culto, doppio culto, triplo culto. Basta nominare la serie di Charlie Brooker (le prime due stagioni erano prodotte da Channel 4, le cose migliori su Netflix non sempre son di produzione Netflix) perché scatti l’applauso. Gli anni Ottanta sono di gran moda, dopo i ragazzini e mostri di “Stranger Things”. Il programmatore di videogame che dopo ore di frenetico lavoro, chiuso nel suo cubicolo, comincia a confondere il reale e il virtuale l’abbiamo già visto ma piace sempre (come dice l’algoritmo consigliando il programma, facendoci vergognare un po’: “spiazzante, anticonformistico, intellettuale”).
Non sarà una nuova stagione (la numero 5 era attesa da un bel po’). Sarà un film-evento. “Interattivo”, sostengono i Netflix-watchers: lo spettatore potrà intervenire sulla trama, scegliendo tra varie opzioni. Subito gli entusiasmi si raffreddano, assieme alla speranza che qualcuno inventi ogni tanto qualcosa di nuovo. Non ce ne sarebbe bisogno, nell’arte di raccontare storie. Ma la solidità delle nostre certezze in materia è pari soltanto all’ostinazione con cui le avanguardie – in qualsiasi materia, vale per il romanzo, per il cinema, per la tv – provano ad aggiustare quel che non è rotto. O a migliorare quel che non è migliorabile.
Dicono: il lettore – o lo spettatore, non fa differenza – deve poter partecipare, non starsene lì a subire le scelte del romanziere o dello sceneggiatore. Il pensiero non è gentile quanto sembra: “Delitto e castigo”, con noi che scegliamo se ammazzare o no la vecchia, è meno interessante di come lo aveva pensato Dostoevskij. Già sono antipatici i finali aperti: aspettiamo la fine di una storia e invece del “The End” (magari con quel che ne sarà dei personaggi vent’anni dopo) arriva un fotogramma fisso e ambiguo. Chi apre le storie, per favore, dovrebbe avere la cortesia di chiuderle. Senza confidare nella gentilezza del lettore: “Scusa, son rimaste un paio di cose in sospeso, vedi tu se Romeo e Giulietta vivranno felici e contenti oppure no”.
Come tutti gli spifferi d’avanguardia, l’interattività ha i suoi corsi e ricorsi. Raymond Queneau negli anni Sessanta proponeva “Cent mille milliards de poèmes”: un libro con i versi stampati su striscioline, il lettore poteva combinare a suo piacere i centomila miliardi di sonetti garantiti dalla matematica. Topolino pubblicava negli anni Ottanta e Novanta le “storie a bivio”: la scopa magica della strega Nocciola funzionerà oppure no? (l’alto e il pop sono sempre più vicini di come li immaginiamo). Gli “intertesti” e la “lettura non lineare” hanno avuto il loro momento. E pure i film che si sdoppiavano, come “Sliding Doors” o “Smoking/No Smoking”.
Speriamo che Charlie Brooker abbia fatto bene i calcoli, architettando “Bandersnatch”. Speriamo non sia davvero una storia che per funzionare bene abbia bisogno di noi. Siamo noi che abbiamo bisogno di uno come lui per un lavoro da professionista. Si prenda le responsabilità che toccano al comandante, senza contare su di noi per pilotare l’aereo.