A qualcuna piace horror
Le donne non vogliono girare film horror, sostiene il luogo comune. Eppure ne scrivono volentieri, forse anche meglio dei maschi. Indagine da Mary Shelley a Shirley Jackson
Le registe sono poche. Le registe interessate all’horror sono meno. Il produttore Jason Blum non ne ha trovata una che volesse girare un film per lui. Probabile che il nome non suggerisca nulla, facciamo un passo indietro. Mr Blum aveva diviso una stanza con Noah Baumbach e gli aveva prodotto il primo film, “Kicking & Screaming” (anno 1995: il titolo italiano “Scalciando e strillando” aggiunge una patina di horror che non c’era). Assieme al regista Oren Peli, Blum ha messo a segno “Paranormal Activity”: 15 mila dollari investiti e 200 milioni di dollari incassati nel 2007 con il primo titolo della saga.
Ha inventato “La notte del giudizio” (la serie derivata, su Netflix, conserva il titolo originale “The Purge” – come “purificazione”, stessa radice di “purgatorio”). Ha diversificato l’offerta con la miniserie “Sharp Objects”, dal romanzo di Gillian Flynn (la ragazza che si ferisce è Amy Adams). E con “Whiplash” di Damian Chazelle, mani che sanguinano per esercitarsi alla batteria. Con “Get Out” di Jordan Peele ha azzeccato l’horror da Oscar, premio per la miglior sceneggiatura originale.
Se l’horror vi mette in fuga, possiamo aggiungere che da anni Jason Blum sogna di portare al cinema “Stoner” di John William
Se l’horror vi mette in fuga, possiamo aggiungere che da anni Jason Blum sogna di portare al cinema “Stoner” di John Williams. Schiere di lettori hanno amato il romanzo, nessuno ricorda mai la trama. Poi basta dire “la storia tristissima del professore universitario nato povero in campagna, con la moglie odiosa”, e la memoria si riattiva. Per parte di padre, Blum vanta una casa frequentata da Andy Warhol, Roy Lichtenstein, il Christopher Isherwood di “Addio a Berlino”.
Jason Blum dice di aver chiesto a tante registe “vuoi dirigere un horror?”. Non è molestia, lo ha fatto anche con David Gordon Green. Dopo un corteggiamento di quasi vent’anni – aveva notato il giovanotto al debutto con “George Washington”, genere festivaliero – lo ha convinto a dirigere “Halloween 2”. La frase “nessuna vuole girare un horror con me” ha scatenato la rituale caciara. Ma a un più attento esame le renitenti si sono ridotte a due.
La prima a dargli buca è stata l’australiana Jennifer Kent di “Babadook”, film di paura sopravvalutato perché “artistico”: un babau sbucato da un libro è più chic di uno che ammazza baby sitter. Jason Blum spunta un “vedremo” (come dire: “preferisco che restiamo solo amici”). La regista intanto sbarcava a Venezia 2018 con “The Nightingale”. Orrori, ma per una giusta causa: ribadire allo spettatore che la tortura e la violenza sulle donne e sugli aborigeni è brutta assai. La seconda regista che gentilmente declinò viene identificata grazie a un assistente che chiamato in soccorso snocciola una lista di signore inclini al genere. Dopo parecchi tentativi il nome esce, non proprio notissimo: Leigh Janiak regista di “Honeymoon”, la luna di miele nei boschi con esiti spaventosi.
Le donne non vogliono girare horror, sostiene Jason Blum. Ma ne scrivono volentieri. Dobbiamo “Frankenstein” a una ragazza che si chiama Mary Shelley (fu pubblicato 200 anni fa, lo festeggia l’edizione Neri Pozza “Frankenstein 1818” ). L’idea risale a due anni prima, sul lago di Ginevra, frutto di una scommessa tra poeti – oltre a Mary Shelley c’erano Byron e l’amato Percy Bysse Shelley: avevano esaurito gli intrecci erotici e non sapevano come fare serata. Niente passeggiate, pioveva troppo. Nelle cronache, sarà ricordato come “l’anno senza estate”, colpa del vulcano indonesiano Tambora: l’eruzione aveva sparso ceneri e velato il sole.
Gli ultimi decenni hanno prodotto un gran revisionismo letterario femminista. Lo illustra bene Mordecai Richler in “La versione di Barney”: la fortunata è Clara Charnofsky, pittrice morta suicida a Parigi e adottata dalle signore in guerra contro il maschio che tarpa le ali. Nonché prima moglie di Barney Panofski, additato come carnefice. Se sembra un’esagerazione romanzesca, pensate a cosa ha dovuto patire il povero Ted Hughes, considerato il torturatore della consorte poetessa Sylvia Plath.
Sono state scovate e rispolverate figure di seconda e terza fila, compagne rimaste dell’ombra, signore che scrivevano di nascosto. Al filone appartiene il film “The Wife” con Glenn Close, compendio di luoghi comuni sulla consorte che si sacrifica, e poi si vendica per essersi sacrificata. Forse ha scritto lei i libri del consorte premio Nobel: lui era capace soltanto di guardare le tette alle studentesse, e rubare i loro i racconti (non può dirsi spoiler, con una trama tanto prevedibile).
Libri, saggi, convegni, dibattiti sulle “dimenticate”. Niente di niente per la fuoriclasse che a diciotto anni scrisse un magnifico racconto dell’orrore, così dell’orrore che due secoli dopo ancora ne parliamo. Come parliamo di Jane Austen, di Elizabeth Bennet e di Mr Darcy (sottoposti a trattamento horror in “Orgoglio e pregiudizio e zombie” di Seth Grahame- Smith, per i cultori delle riscritture deviate). Stephen King in “Danse Macabre” dice che gli archetipi paurosi sono il vampiro, il licantropo, “la cosa senza nome”: da allora nessuno ha più inventato nulla.
Lo spettatore di “Hill House” è diverso dal lettore del romanzo, che deve fidarsi delle parole di Eleanor la narratrice, totalmente inaffidabile
La creatura di Frankenstein non ha nome perché lo scienziato ha dimenticato di dargliene uno. Finito lo sporco lavoro, guarda il mostro rianimato con il fulmine, lo trova ributtante – “la pelle giallognola, gli occhi acquosi, le labbra nere” – e scappa. Pietosamente, Mary Shelley scrive sempre “creatura”. Fatta di “membra assemblate” – idea che il cinema rende con il collo imbullonato di Boris Karloff. Resta il mistero: non bastava un cadavere solo? (purché gigantesco, Victor Frankenstein spiega che la piccolezza rende il lavoro difficile). Li rovinavano quando cercavano di dissotterrarli e trasportarli? Erano criminali decapitati dal boia?
Anche la ricorrenza dei 200 anni ha preferito celebrare la creatura. Trascurando, se non per ricordarne le parentele e le sciagure (figlia della suffragetta Mary Wollstonecraft, moglie del poeta Shelley, bambini morti in culla) l’artefice di una storia e di un personaggio continuamente rilanciati al cinema, in teatro, nelle serie televisive. “Frankenstein o il Prometeo moderno” (Prometeo era l’eroe mitologico che rubò il fuoco agli dei, attirandosi il loro odio eterno) vanta al momento una settantina di film. Ma non finirà qui.
Il primo adattamento è un cortometraggio muto del 1910. Il classico è “Frankenstein” del 1931 con Boris Karloff, diretto da James Whale che poi girerà “La moglie di Frankenstein” (in realtà, la moglie della creatura, comincia qui la confusione). Il più curioso è il film d’animazione “Frankenweenie” di Tim Burton: il ragazzino rianima il cane di casa attaccandolo alla batteria dell’automobile. Non si contano le partecipazioni speciali della creatura, riconoscibile anche solo in silhouette, nei Simpson come in X-Files. Per non parlare della parodia-tutta-per-sé “Frankenstein jr”, diretta da Mel Brooks nel 1974: sappiamo le battute a memoria, e la creatura debutta in società ballando il tip tap, elegante con smoking e cravattino.
Mary Shelley diciottenne ha fabbricato una storia che funzionava nell’Ottocento (il potere della scienza, il magnetismo, ma anche le fabbriche e la classe operaia in rivolta). E continua a funzionare, di scienziati pazzi è pieno il mondo (e i non scienziati, per esempio i riformatori della società, possono esserlo altrettanto). Victor Frankenstein ha l’ardire di sostituirsi a Dio, padrone della vita e della morte, per questo ha fallito ed è stato punito. Sbagliato: Viktor Frankenstein ha l’ardire di sostituirsi alle donne, sono loro a dare la vita. Nel bellissimo “Frankenstein” teatrale di Danny Boyle, la fidanzata di Victor lo fa notare senza girarci attorno: “Volevi dare la vita? Allora perché non venivi a letto con me invece di pasticciare in laboratorio?”.
Per Stephen King gli archetipi paurosi sono il vampiro, il licantropo, “la cosa senza nome”: da allora nessuno ha più inventato nulla
Ha scritto magnifiche storie horror Shirley Jackson. Con “La lotteria” spaventò gli abbonati al New Yorker. E si fece odiare dai vicini, quando confessò che per il villaggio di brava gente avviata in una bella giornata di sole a un rito sanguinario – “si è sempre fatto così, teniamo alle tradizioni” – era ispirato alla cittadina del Vermont dove viveva con il marito professore universitario. Storia affascinante, anche questa inesauribile. In “The Purge”, altro successo targato Jason Blum, i Nuovi Padri Fondatori degli Stati Uniti istituiscono la “notte della purificazione”: per 12 ore libertà di uccidere, la polizia non interviene e le ambulanze non lavorano. Nel resto dell’anno i delitti tendono a zero. Missione ordine pubblico compiuta.
In “Paranoia”, Shirley Jackson scrive: “Il romanzo parla di una casa stregata, e di un gruppo di persone che vanno ad abitare lì per osservare i fenomeni paranormali ai quali vengono esposti”. Il lettore di Shirley Jackson riconosce subito il romanzo “L’incubo di Hill House”, datato 1959 (Adelphi). Lo spettatore di Netflix che ha visto la serie “The Haunting of Hill House”, datata l’altro ieri, non riconosce pressoché nulla, giusto il nome della casa. “Il nome della casa stregata”, precisa lo spettatore. “Non è mica sicuro”, dice il lettore. Il litigio potrebbe continuare.
Mike Flanagan, regista e sceneggiatore delle dieci puntate, ha lavorato liberamente (più liberamente di così, solo i fratelli Coen quando fecero sapere che “Fratello dove sei?” era tratto dall’“Odissea”). Nella serie tv, la famiglia Craig – padre madre e rampolli – prende alloggio a Hill House, dove succedono cose orribili. Poi vediamo i bambini diventati adulti, mentre cercano di fare i conti con il passato (visioni, spaventi, ma perlopiù lente panoramiche circolari che tengono in ansia lo spettatore, anche se poi non è detto che succeda qualcosa).
Nel romanzo di Shirley Jackson, arriva a Hill House un gruppo assortito di scettici, al seguito di uno scienziato che indaga sui presunti fenomeni paranormali riscontrati nell’edificio. Edificio costruito da un architetto giocherellone che si è divertito a non fare angoli retti e a sballare le proporzioni (come le case stregate di Edgar Allan Poe: la casa Usher che sembra scrutare il visitatore, e incute meno paura se la si guarda riflessa nello stagno; il collegio di William Wilson dove era impossibile sapere se ci si trovava al primo o al secondo piano).
A raccontare la storia – seguendo la cronologia, senza saltellare avanti e indietro – è Eleanor, tra tutti gli ospiti la più suggestionabile (gli altri ragionano così: “La maggior parte delle persone muore nel proprio letto, tutte le case dovrebbero essere infestatissime”). Siamo in zona “Giro di vite” di Henry James: la governante è impazzita, o c’è qualcuno lassù nella torretta? (nel dubbio, la governante soffoca i bambini per proteggerli).
“Paranoia” (sempre Adelphi) mette insieme racconti sparsi, aneddoti sul mestieraccio, ossessioni della scrittrice. Lo sapevano bene i figli di Shirley Jackson (ormai grandi, hanno trovato un giorno una scatola di manoscritti sulla soglia di casa, e ne hanno ricavato il libro): “Una cosa può essere vera, non vera, oppure una fissazione della mamma”. La casalinga del Vermont depressa e impasticcata che scriveva “L’incubo di Hill House” era molto più avanti di Mike Flanagan. La serie mette paura, ci mancherebbe. Ma lo spettatore resta a guardare, mentre il lettore del romanzo sta alle parole di Eleanor la narratrice. Quando capisce che è del tutto inaffidabile, i fantasmi hanno già fatto il loro effetto.
Nel “Frankenstein” di Danny Boyle la fidanzata di Victor dice: “Volevi dare la vita? Allora perché non venivi a letto con me?”
Ha scritto una magnifica storia horror Naomi Alderman, tenuta a battesimo letterario da Margaret Atwood (“Il racconto dell’ancella”, dormien te sugli scaffali delle librerie dal 1984 a oggi, lo ha resuscitato la serie tv “The Handmaid’s Tale”). “Ragazze elettriche” è il titolo italiano con cui l’editore Nottetempo ha reso l’originale “Power”, che oltre al potere indica l’elettricità. Mrs Alderman è cresciuta in una comunità ebraica ortodossa di Londra (sembra ci sia tornata, dopo un periodo di lontananza). Il romanzo racconta una mutazione. Prima sporadicamente, in varie parti del mondo, poi in massa, le donne riescono a fulminare, con una scossa elettrica, chi le importuna. La usano per prendere il potere, al netto dei discorsi sul potere femminile che sarebbe diverso da quello maschile (trappola, trappola, non fidatevi).
Tra gli ultimi arrivi in libreria, “La maledizione di Melmoth”, scritto da Sarah Perry (editore Neri Pozza) che lo ha ambientato a Praga: la città del Golem, il gigante costruito con l’argilla della Moldava, che nella leggenda ebraica prende vita. Chiarissime le intenzioni: “Da sempre ho desiderato far vivere sulla pagina un grande ‘mostro’ – il mio Frankenstein o Dracula – ma volevo che fosse una donna”.
Più tenero, ma sempre con una bizzarra creatura, “Mrs Caliban” di Rachel Ingalls (Nottetempo): racconto amatissimo da John Updike, da Joyce Carol Oates, da Ursula K. Le Guin. Una casalinga disperata ascolta alla radio che un uomo-rana alto due metri è scappato da un laboratorio, qualche giorno dopo se lo ritrova in cucina e nasce una storia d’amore. Nel caso Jason Blum fosse interessato a questa variazione della Bella che incontra la Bestia, sappia che una storia simile – molto molto molto simile – l’ha raccontata Guillermo del Toro in “La forma dell’acqua”.
Effetto nostalgia