L'anno scorso ai Golden Globe era tutto #MeToo, ora tutto #inclusione
La stampa estera a Hollywood apre la stagione dei premi. Con un po' di confusione
L’anno scorso tutte con l’abito nero, era l’anno del #MeToo. Domenica sera ognuna era vestita a proprio capriccio – molti bustini, molto rosso, qualche giallo, Lady Gaga con uno spettacolare Valentino color principessa Elsa in “Frozen”, al collo una cascata di diamanti Tiffany. Dal palco Olivia Colman – premio per la migliore attrice comica in “La favorita” (di Yorgo Lanthimos, esce il 24 gennaio) – ha ringraziato Emma Stone e Rachel Weisz chiamandole “bitches”. Insomma: “stronze”, come magnificamente sono nel film, in guerra per contendersi i favori della settecentesca regina Anna (l’Inghilterra non ha avuto sul trono solo Elisabette).
Applausi. Poi la ricreazione finisce e torna la banalità. Glenn Close vince il Golden Globe come migliore attrice drammatica (la stampa estera fa distinzione, regalando una chance in più agli attori brillanti). Nel film di Björn Runge intitolato “The Wife - Vivere nell’ombra”: studentessa dotata che si innamora del professore, lo sposa, cresce i figlioli, e ripensa a tanta devozione quando lui vince il Nobel per la Letteratura (non assegnato nel 2018, anche gli svedesi molestano).
La stampa estera a Hollywood – un’ottantina di giornalisti, agli Oscar votano in ottomila – apre la stagione dei premi. Con un po’ di confusione. Nella categoria “film drammatici” gareggiavano “A Star is Born” di Bradley Cooper e “Bohemian Rhapsody” di Bryan Singer (più o meno, la lavorazione è stata tormentata). Due musical, da regolamento dovrebbero stare con le commedie. Ha vinto “Bohemian Rhapsody”, più per amore di Freddie Mercury e dei Queen che per meriti cinematografici. Rami Malek – era nascosto sotto la felpa di Mr. Robot, prima dei jeans bianchi e canottiera – ha avuto la statuetta come migliore attore drammatico. Grande sconfitto il film con Lady Gaga, ennesimo remake di un classico hollywoodiano. Non hanno premiato neppure l’attrice che da sola regge il film. Solo una delle sue canzoni (un modo come un altro di dire: “Ragazza, accontentati del successo avuto finora e non cercare di fare l’attrice”).
Nel gioco dei quattro cantoni, “Vice - L’uomo nell’ombra” di Adam McKay finisce tra le commedie. Notare, per prima cosa, la scarsa fantasia dei titoli-spiegazione all’italiana. E per un esercizio pratico di femminismo, mettere a verbale che la donna nell’ombra è sottomessa ai capricci dello scrittore ispirato, mentre l’uomo dell’ombra è il vicepresidente americano Dick Cheney. Il regista lo dipinge come il male assoluto, imputandogli Guantanamo, le extraordinary rendition, perfino l’Isis. Perfettamente in linea con la tesi del film, l’attore Christian Bale ha ringraziato Satana “per l’ispirazione”. Perfettamente in linea con i luoghi comuni sul mestieraccio, i giornalisti della stampa estera gli hanno dato il premio come migliore attore: è ingrassato, si è messo il parrucchino, ha studiato i gesti e il tono della voce, che altro?
Altri maschi bianchi, nella sezione cinema, non se ne trovano. Perfino l’eroe ragazzino di “Spider Man: Un altro universo” – premiato nella categoria film d’animazione – si chiama Miles Morales. Era infatti l’anno dell’inclusione, molti i registi e gli attori neri; maestra di cerimonie, con Andy Samberg, la canadese di origini asiatiche Sandra Oh. Le buone intenzioni sono sfociate in tre Golden Globe al film di Peter Farrelly “Green Book”: miglior film-commedia, migliore sceneggiatura, migliore attore non protagonista a Mahershala Ali, lanciato da “Moonlight”. Ha parte di un pianista nero che si fa scarrozzare dall’autista italoamericano Viggo Mortensen, nei razzisti anni Sessanta. Fa tappa in tutti i luoghi comuni. Speriamo che da qui agli Oscar se ne perdano le tracce.
Politicamente corretto e panettone