Una scena di “Operation Red Sea”, film di guerra diretto da Dante Lam e uscito nel 2018. E’ una produzione tutta cinese ma in stile molto hollywoodiano

Hollywood a Pechino

Giulia Pompili

La Cina si sta prendendo il mercato cinematografico, ma alle sue condizioni

Se sulla soia c’è ancora parecchio da discutere, e sulla moda ancora molto da imparare, c’è un settore in cui America e Cina – diciamo pure occidente e Cina – sembrano andare d’amore e d’accordo. E’ il cinema, e l’enorme opportunità che il Dragone rappresenta per un business in crisi un po’ ovunque. E anche per gli attori sulla via del tramonto: quel che un tempo era la Russia, ora è diventata la Cina. Da qualche settimana è disponibile anche sul nostro Netflix “The Bombing”, che in Cina si chiama “Air Strike”: un colossal bellico e ipercelebrativo diretto da Xiao Feng sul bombardamento giapponese della città di Chongqing durante la Seconda guerra mondiale. Il protagonista occidentale, che addestra i piloti cinesi contro gli invasori nipponici, è Bruce Willis. Il production designer è Mel Gibson. Nicolas Cage, vincitore di Oscar e poi finito nel dimenticatoio di Hollywood, qualche tempo fa ha detto a Variety, da Macao, che “il motivo per cui ho ancora la fortuna di fare film è la Cina, il cinema cinese e anche gli investitori cinesi. E’ grazie a quest’industria cinematografica che posso continuare a lavorare. Quindi, so a chi dire grazie. Altri attori occidentali stanno cercando di fare la stessa cosa, perché si rendono conto di quanto sia importante. E in effetti qui è davvero il futuro del cinema”.

 

Bruce Willis recita in “Air Strike”. Nicolas Cage ha detto: “Il motivo per cui ho ancora la fortuna di fare film è la Cina”

Secondo l’ultimo report di Ampere Analysis, la Cina supererà l’America come più grande mercato cinematografico entro il 2022, con ricavi complessivi per 11,8 miliardi di dollari. E questo grazie anche alla tradizionale pianificazione: le sale cinematografiche nel 2009 erano 4.723 – si legge nel report – nel 2017 erano diventate quasi 51 mila. Si costruiscono sale cinematografiche per star dietro alla domanda, e infatti la partita sui biglietti staccati la Cina l’ha vinta già quattro anni fa. Erano i tempi del campione d’incassi “The Mermaid”, del regista piuttosto famoso anche in occidente Stephen Chow, lo stesso di “Shaolin Soccer” e che a breve, durante la stagione del Capodanno cinese uscirà con un nuovo film, “New King Of Comedy”, che si preannuncia un altro film da record. Del resto andare al cinema in Cina costa meno che negli Stati Uniti: un biglietto costa in media poco più di dieci dollari, in Cina praticamente la metà.

 

Dopo il boom dei primi anni delle grandi produzioni, il mercato cinese si sta stabilizzando: lo scorso anno, per esempio, secondo l’Amministrazione cinematografica di stato, gli incassi da box office sono cresciuti “soltanto” del 9 per cento, per un totale di 8,8 miliardi di dollari. Un dato lontano dal +13,45 per cento realizzato nel 2017, ma comunque una fetta allettante per le produzioni internazionali, che nel 2018 hanno rappresentato il 54 per cento del mercato totale. E’ comprensibile, quindi, che già da anni Hollywood si sia buttata a peso morto sul mercato cinese.

 

La prima grossa produzione sino-americana è stata “Shark - Il primo squalo”, girato da Jon Turteltaub e prodotto dalla Warner Bros. insieme con la Gravity Pictures cinese, è un horror fantascientifico la cui protagonista femminile è interpretata da Li Bingbing. Uscito in contemporanea mondiale nell’agosto scorso, il film ha fatto oltre 500 milioni di dollari al box office internazionale, e naturalmente tutto si è trasformato in propaganda per la Cina: “Il successo di film hollywoodiani con elementi cinesi nei box office nordamericani ha attirato l’interesse di critici e insider, dando il via a discussioni entusiaste sulla cooperazione cinematografica tra le industrie cinesi e americane”, ha scritto un paio di settimane fa Gao Shan su Xinhua, l’agenzia di stato cinese. “Il thriller sugli squali e il trionfo della diversità razziale in ‘Crazy Rich Asians’ sono tra i più importanti successi di quest’anno, grazie al fatto che hanno interiorizzato elementi legati alla Cina, acquisendo un fascino mainstream in America”. Per Pechino i film “con caratteristiche cinesi” – per citare un topos retorico del presidente Xi Jinping – “sono ottimi modelli per combinare il meglio del talento degli Stati Uniti e della Cina per creare contenuti cinematografici seducenti per il consumo globale”, si legge su Xinhua, e in futuro ci saranno di sicuro altre coproduzioni di questo tipo, che riflettano “il gusto, la cultura e il punto di vista cinese”.

 

La produzione hollywoodiana, per entrare nel mercato cinese, è costretta a omettere argomenti e a censurare attori sgraditi

Hollywood, però, non è Pechino. Con l’attenzione posta dalla leadership di Xi sull’immagine cinese all’estero, lo scorso anno la regolamentazione dell’industria cinematografica e televisiva è stata spostata sotto il controllo diretto del dipartimento di propaganda del Partito, che significa più controllo e facilitazioni per chi si adatta al senso cinematografico cinese. E il sospetto è che Hollywood si stia adattando alle richieste, provocando un dilemma d’identità tra gli addetti ai lavori – ne aveva scritto il columnist Isaac Stone Fish sul Washington Post: “Finora non è chiaro come si svilupperà la nuova relazione tra Hollywood e il nuovo Dipartimento di propaganda. Ma il risultato più probabile è che gli studios americani dovranno saltare tra i cerchi di fuoco per ottenere l’approvazione dei film, e dunque finiranno per scrivere con più accuratezza le sceneggiature che contengono elementi che Pechino potrebbe ritenere sensibili, e aggiungeranno più scene, linee e personaggi in grado di glorificare la Cina e il Partito”. L’attrice Li Bingbing, per esempio, è un perfetto ariete del soft power cinematografico cinese in occidente. Quarantacinque anni, originaria della provincia dello Heilongjiang, nel nord est del paese, Li è una delle attrici cinesi più famose e ha un curriculum di tutto rispetto per Pechino, avendo recitato in film quasi tutti coerenti con la linea politica del Partito. Quando la Warner Bros, nel 2012, decise che la premiere del film hollywoodiano in cui aveva una parte, “Resident Evil: Retribution”, si sarebbe svolta a Tokyo, lei non ha partecipato per protestare contro le pretese giapponesi sulle isole Senkaku (che i cinesi chiamano Diaoyu). Li condivide il nome di battesimo con un’altra attrice famosa in occidente per via di alcune apparizioni in “X-Men” e “Iron Man”, ma soprattutto per essere improvvisamente sparita ad agosto. Fan Bingbing, nata a Shanghai nel 1981, è invece il modello opposto di Li: un paio di anni fa Fan era diventata l’attrice cinese più pagata secondo Forbes, con 60 milioni di dollari di guadagni, e poi a metà 2018 era sparita dalla circolazione per quattro mesi. In seguito era stata ufficializzata la notizia: le autorità di Pechino l’avevano beccata a evadere le tasse, e quindi era stata condannata a pagare una multa da 130 milioni di dollari. Come spesso succede in queste circostanze, Fan era stata costretta a usare la piattaforma social cinese Weibo per fare pubblica ammenda: “Ho perso l’autodisciplina per i soldi. Mi scuso con la società, con gli amici e le persone che mi vogliono bene, e con l’ufficio delle tasse del paese. Senza il Partito e senza le grandi politiche cinesi, senza l’attenzione delle persone, non ci sarebbe mai stata Fan Bingbing”. Adesso si parla di un suo eventuale ritorno sulle scene, ma dimenticare certe macchie non è mai facile. Per esempio “Air Strike”, il colossal bellico sul bombardamento di Chongqing in Cina è stato censurato all’ultimo momento. Il motivo? Un cameo della pregiudicata Fan Bingbing. Meglio quindi puntare tutto su “Operation Red Sea”, il campione d’incassi dello scorso anno in Cina. Diretto da Dante Lam, costato 70 milioni di dollari, ne ha guadagnati 580, ed è una apologia dell’Esercito popolare di liberazione. Racconta infatti l’evacuazione dal porto di Aden, in Yemen, di 600 cittadini cinesi – una vicenda avvenuta davvero nel 2015. Qui però Hollywood non c’entra niente.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.