L'epopea del Sundance Film Festival
La mecca del cinema indipendente fondata 34 anni fa da Robert Redford, e da cui è partita la carriera dei fratelli Coen
Ha detto “ciao ciao” e se n’è andato via dall’Eqyptian Theatre, riducendo la retorica al minimo. Come aveva fatto lo scorso agosto, annunciando il suo addio alla recitazione con il film “The Old Man and the Gun” di David Lowery. A 82 anni, Robert Redford ha lasciato il Sundance Film Festival che aveva fondato 34 anni fa nel gelido Utah. Senza farla lunga, senza neanche dire “d’ora in poi un mio pensiero su tre sarà dedicato alla morte”, come fa Prospero nella “Tempesta” di Shakespeare spezzando la bacchetta magica. Per esperimento mentale, immaginate cosa farebbe un pari grado italiano, e quanti omaggi, e quante celebrazioni, e quanti ripensamenti sarebbero dietro l’angolo.
Il Sundance va avanti benissimo da solo, in questi tre decenni è diventato la mecca del cinema indipendente, non solo americano. Arrivare a Park City da sconosciuti, ripartirne con belle critiche e soprattutto con il film comprato da un distributore importante è il sogno di chiunque faccia cinema. Da qui è partita la carriera dei fratelli Coen con “Blood Simple”, da qui “Quattro matrimoni e un funerale” di Richard Curtis ha spiccato il volo, qui i primi fortunati hanno applaudito “Sex, Lies and Videotape” di Steven Soderbergh o “Little Miss Sunshine” della coppia Dayton & Faris (carriera poi inciampata su “Ruby Sparks”, solo per maniaci dei libri, e il poco appassionante “La battaglia dei sessi”).
Film d’apertura fuori concorso – la sera del 24, il Sundance durerà fino al 3 febbraio – “After the Wedding” di Bart Freundlich: a una lettura distratta non dice nulla ma è il marito di Julianne Moore. Conosciamo anche la trama, essendo il remake di un film girato da Susanne Bier nel 2006, uscito nelle sale italiane con il titolo “Dopo il matrimonio”: un orfanotrofio in Africa, un giovanotto che cerca finanziamenti e torna nella natia Danimarca dove ritrova una vecchia fiamma, sposata al mecenate che dovrebbe cacciare la grana. La nuova versione ha due donne protagoniste, e siamo curiosi di sapere quali salti mortali sono stati fatti per aggiustare la trama.
Le attrici sono Julianne Moore, ovvio. E Michelle Williams. Spiace dirlo, ma sa di “vanity movie”, come sa di “vanity movie” – o di scelta registica dissennata – “Gloria Bell” (esce in Italia il 21 marzo). Quale spettatore al mondo crederà mai che la rossa Julianne giri di balera in balera per raccattare uno straccio d’uomo, e trova solo signori con la fascia elastica che riduce la pancia? C’era anche un gatto senza pelo, nell’originale diretto da Sebastián Lelio che qui fa il bis – speriamo cambi almeno il gatto. Siccome ogni festival deve avere il suo scandalo, al Sundance proietteranno un film di quattro ore su Michael Jackson, “Leaving Neverland”. Più precisamente, su due ragazzini ormai adulti che lo accusano – pur avendo ritrattato al processo le loro affermazioni.