La “quota patria” è il flagello di ogni festival e la Berlinale non fa eccezione
Le scelte "coraggiose" del quasi ex direttore Dieter Kosslick
Diciamo “serial killer”, pensiamo agli Stati Uniti. Ma il vero Jack lo Squartatore operava nell’East End londinese. E l’immaginario Moosbrugger – in “L’uomo senza qualità” di Robert Musil – uccide nella Vienna di inizio Novecento, provocando un brivido tra chi prima biasimava le manie scandalistiche dei giornali: “Poteva addirittura succedere che nell’andare a letto un irreprensibile capodivisione o procuratore di banca dicesse all’assonnata moglie: ‘Che cosa faresti adesso, se io fossi un Moosbrugger…?’”. Tedesco era “M-Il mostro di Düsseldorf”, suggerito a Fritz Lang da due veri serial killer degli anni 20 (l’altro aveva il suo terreno di caccia a Hannover).
La tradizione c’era. Nulla però che potesse giustificare lo scempio – non troviamo altra parola – perpetrato da Fatih Akin nel suo film “Der Goldenen Handschuh”. In concorso alla Berlinale perché la “quota patria” è il flagello di ogni festival, e la Germania non fa eccezione. Serviva coraggio per rimandare al mittente l’ultima fatica di un ex vincitore di Orso d’oro – nel 2004, con “La sposa turca” – nato ad Amburgo da genitori turchi. Quindi più vivace e generoso, in materia di regia e di storie, dei tedeschi solitamente in gara.
Serviva parecchio coraggio anche per metterlo in concorso. Ma il quasi ex direttore Dieter Kosslick deve aver pensato che Cannes aveva aperto le braccia a “The House That Jack Built” di Lars Von Trier (regista riabilitato per l’occasione, fu cacciato come “persona non grata”). Che ogni festival ha bisogno del suo scandalo. Che se ci avessero detto “lo hanno escluso perché faceva schifo” non avremmo mai toccato con mano quanto esattamente il film sul serial killer di Amburgo – nel quartiere a luci rosse, si chiamava Fritz Honka – potesse fare schifo. Anche a chi ha visto “Hostel” e roba simile, con l’aggravante che Fatih Akin non spegne la luce verdognola mai. La penombra e il buio non esistono, dei cadaveri sentiamo la puzza e le operazioni di smembramento son fuori campo ma rumorosissime. Visto che siamo in tema: neanche il serial killer di “La casa di Jack” (nelle sale il 28 febbraio) offre motivi di interesse, se non siete costretti a vederlo per risparmiarlo ad altri spettatori. Avanti così, e il cinema in sala passerà altri brutti momenti.
Sporco, puzza, vittime alcolizzate e in là con gli anni, un serial killer con la faccia massacrata dopo un incidente, sempre attaccato alla bottiglia. “Coerenza stilistica”, diranno i fan. Per intendere che neppure un minuto risulta libero da orrore e raccapriccio. Finché gli immigrati greci del piano di sotto, dopo essersi presi la colpa per l’odore di putrefazione, vedono cadere vermi e denti, assieme al soffitto marcio, il mostro va in galera.
Affrontiamo “Mr Jones” – il film di Agnieszka Holland sulla carestia ucraina negli anni Trenta del Novecento – pensando “E adesso cosa toccherà allo sventurato festivaliero?” (quasi non si reggeva la graphic novel di Igort, “Quaderni ucraini: memorie dai tempi dell’Urss”). La regista polacca la prende larghissima, nella prima scena vediamo George Orwell, che deluso dallo stalinismo scriverà la “Fattoria degli animali”. Ma il vero eroe è Gareth Jones, giornalista del Galles che era riuscito a intervistare Hitler (ricavandone l’idea che la guerra era vicina, ma nessuno gli credeva) e ora tentava la doppietta: a Mosca per intervistare Stalin. Scoprì e documentò la tremenda carestia, originata da disastrose scelte economiche (lo cacciarono, e morì a 30 anni in circostanze misteriose). Mentre il premio Pulitzer Walter Duranty spacciava al New York Times fake news dettate da Stalin.
Politicamente corretto e panettone