Gli Oscar della noia
“Green Book” miglior film, ma c’è poco da festeggiare: scene tutte esemplari, una lezioncina morale dopo l’altra
La cerimonia era così noiosa che c’è voluta la politica per ravvivarla. Prima Spike Lee, premiato per la sceneggiatura di “BlacKkKlansman”. L’ha presa lunga partendo dagli schiavi, ha ricordato i risparmi della nonna per mandarlo alla Nyu, ha raccomandato di “fare la cosa giusta” alle prossime elezioni (immediata la replica stizzosa di Donald Trump). Poi Rami Malek, nato a Los Angeles da genitori egiziani, migliore attore per “Bohemian Rhapsody”. Nella parte di Freddie Mercury, all’anagrafe Farrokh Bulsara, nato a Stone Town, Tanzania. Immigrato e gay, ha ricordato il giovane – e un po’ miracolato – attore di “Mr. Robot” (“non ero la prima scelta, è andata bene lo stesso”). Sul fattore gay, gli sceneggiatori del film hanno avuto mano leggera, e nella lista dei ringraziamenti mancava il regista Bryan Singer, accusato di molestie.
Per Spike Lee non era ancora arrivata la Grande delusione (solo la stranezza della statuetta alla carriera ricevuta nel 2015, prima di vincerne una in gara). L’Oscar per il miglior film è andato a “Green Book” di Peter Farrelly. Spike Lee – con il suo completo viola e il prezioso medaglione era decisamente schierato con i fan di Prince – non ha gradito. In gara c’era anche il suo “BlacKkKlansman”, se proprio l’Academy voleva dare un segnale a Trump. E c’era l’orgoglio nero di “Black Panther”, il supereroe africano (premiato per scene e costumi, notevolissimi).
C’è poco da festeggiare, in effetti. “Green Book” ha una sceneggiatura tutta di scene esemplari, una lezioncina morale dopo l’altra. Finché l’autista italo-americano mette da parte i suoi pregiudizi (non prima di aver insegnato al nero come si mangia il pollo fritto con le mani). Quel che Spike Lee aveva sbeffeggiato come “magical negro”: un personaggio che esiste in una storia solo perché un bianco possa sentirsi meglio (lui, e anche gli spettatori, che vanno a casa sentendosi più buoni). Aggravante: nel 1990, l’anno di “Fa’ la cosa giusta”, l’Oscar era stato vinto da “A spasso con Daisy” – autista nero, antipatica vecchietta bianca. Da qui l’amarezza: “Ogni volta che qualcuno guida la macchina, io perdo”.
Alfonso Cuarón con “Roma” è arrivato fino a dove poteva arrivare. Una statuetta come miglior regista, una per il miglior film non parlato in inglese, una per il direttore della fotografia (niente miglior film, Netflix si rifarà alla prossima occasione). Sembrava di veder crollare, mattone dopo mattone, il muro con il Messico. Fino all’affondo: “Sono contento, ho visto e apprezzato tanti film stranieri quando ero ragazzo: ‘Quarto potere’, ‘Lo squalo’, ‘Il Padrino’”.
Olivia Colman ha vinto l’Oscar come migliore attrice per “La favorita”, essendo britannica non ha avuto nulla da rivendicare (Glenn Close ha abbozzato, tutti i pronostici la davano come sicura vincitrice). Attori non protagonisti, Regina King per “Se la strada potesse parlare” e Mahershala Ali per “Green Book”, l’hashtag #oscarsowhite ha fatto il suo effetto, magari dall’anno prossimo badiamo più al cinema.
A parte la politica, i ringraziamenti hanno declinato il “non mollare mai” in tutte le sue forme, quasi sempre con lacrimuccia. Del presentatore non si è sentita la mancanza. La scenografia pareva una grotta, o una gigantesca meringa. Nell’omaggio agli scomparsi mancava Stanley Donen, regista con Gene Kelly di “Cantando sotto la pioggia”.
Politicamente corretto e panettone