Nel nuovo film di Veltroni non ci sono personaggi, ma portatori di istanze
In “C’è tempo” il regista sfodera un ragazzino che sta nel copione solo per consentire a un adulto di risolvere le faccende proprie. E un adulto che sta nel copione solo per consentire a un ragazzino di risolvere le faccende proprie
Spike Lee ha identificato e sbeffeggiato la scorciatoia di sceneggiatura detta “magical negro”: un personaggio nero che sta nel copione con il solo scopo di consentire a un bianco di risolvere i propri problemi. In “C’è tempo”, Walter Veltroni sfodera un “magical kid”, un ragazzino che sta nel copione solo per consentire a un adulto di risolvere le faccende proprie. Trattandosi di regista sinceramente democratico (e di sceneggiatore, assieme a Doriana Leondeff) abbiamo anche un “magical adult”, un adulto che sta nel copione solo per consentire a un ragazzino di risolvere le faccende proprie.
Non sono due personaggi, sono due portatori di istanze: lo spettatore in cerca di cinema non sa dove guardare. A nulla servono i riferimenti cinefili, in cima alla lista “Novecento” di Bernardo Bertolucci, su cui abbiamo fatto le migliori litigate della nostra vita (eravamo contro, e la citazione di una scena contadina ha rinverdito tutti i motivi per restarlo). Poi il cinema Fulgor di Rimini. Ma siccome non tutti gli spettatori sono stati collezionisti delle videocassette allegate all’Unità, quando Walter Veltroni era direttore, l’adulto Stefano Fresi fa il portatore di didascalia: “Qui veniva Federico Fellini”. Strano che il ragazzino cinefilo non lo sappia: riesce a versare una lacrima per la morte dei genitori solo quando vede Jean-Pierre Léaud nei “400 colpi” di Truffaut.
Il ragazzino è ricco – per via della casa, della camicia bianca, e soprattutto della musica classica, segno sicuro di una vita tra gli agi. L’adulto è povero, per campare si prende cura dello specchio che d’inverno regala un po’ di sole a Viganella, paesino tra le montagne dell’Ossola. Fa anche l’osservatore di aquiloni, mestiere che non sembra granché redditizio e ha una fidanzata artista (costruisce alberelli con i rotoli di carta igienica, prendiamo nota per un saggio su come vengono trattate le donne nel cinema italiano d’autore).
Rullo di tamburi. I due sono fratellastri, hanno lo stesso padre. Uno vissuto negli agi, l’altro nella necessità. Per questo – altro rullo di tamburi – il ragazzino non sa scegliere, mentre l’adulto povero non ha mai potuto scegliere. Viaggiano insieme su un antico ma lucidissimo e splendente maggiolino Volkswagen, nero e decappottabile, mai sporcato da un granello di polvere neanche quando viaggia sullo sterrato. Pisciano insieme, mentre un drone con la macchina da presa cala su di loro (nell’antologia delle scene inutili, questa è molto ben piazzata). Incontrano una cantante con la figlia ragazzina – se fosse un fumetto, si vedrebbero i cuoricini.
Arrivano fino a Parigi. Prima tappa alla Brasserie Lipp, dove in un tavolo d’angolo c’è nientedimeno che Jean-Pierre Léaud. Di sicuro, il wet dream del regista quando era fanciullo. Nei titoli di coda, puntuale, la nostalgia per le vecchie sale.