Ai David di Donatello va in scena il Dogman pigliatutto
Nove premi per il film di Matteo Garrone. Migliore attrice è Elena Sofia Ricci per Loro, miglior attore Alessandro Borghi per Sulla mia pelle. A Gabriele Muccino il Premio dello spettatore
Ha stravinto “Dogman”. E chi altri avrebbe dovuto vincere, contro un regista come Matteo Garrone? Contro una storia presa dalla cronaca ma universale: il mite che subisce finché la violenza esplode. Contro una periferia senza sociologia, illuminata e fotografata come si deve. Contro due attori bravi e ben diretti, Marcello Fonte e Edoardo Pesce. Se i David di Donatello avessero la loro sezione “Cani” – il Festival di Cannes ha la Palme Dog – avrebbero vinto anche l’alano che si fa fare le unghie, e l’altro che si mangia i maccheroni con il padrone, uno a te e uno a me.
“Dogman” ha fatto incetta dei premi importanti, nove in totale. Gli è sfuggito solo il premio per il migliore attore protagonista a Marcello Fonte (già premiato a Cannes). Lo ha vinto Alessandro Borghi, raro attore italiano che recita, intendendo con questo: “finge di essere qualcun altro”, cambiando nel corpo e nella voce. In “Sulla mia pelle” era particolarmente difficile. Il film di Alessio Cremonini – premiato come miglior regista esordiente – racconta l’ultima settimana di Stefano Cucchi. In un cinema che sempre combatte con la sospensione dell’incredulità, Alessandro Borghi ha compiuto un lavoro straordinario. C’erano le file per vederlo al cinema, nonostante fosse in streaming su Netflix.
Chi avrebbe potuto vincere, contro il più bel film italiano dell’anno? Non certo “Loro” di Paolo Sorrentino, tormentone in due parti gravato dall’ideologia: se ne sarebbe potuto ricavare un film guardabile sottraendo la pecora e sommando i pezzi riusciti, ad esempio “Berlusconi piazzista telefonico che seduce la casalinga” (Elena Sofia Ricci-Veronica Lario ha vinto come migliore attrice). Non certo “Capri-Revolution” di Mario Martone, altro film grondante ideologia, artistica e politica. Meno che mai “Lazzaro felice” di Alba Rohrwacher, inno alla decrescita e al “come si stava meglio quando eravamo tutti più poveri, ma ci volevamo bene”.
“A casa tutti bene” di Gabriele Muccino ha vinto il David dello Spettatore. La novità di quest’anno: premia i film già premiati al botteghino, ma non ancora ritenuti degni di entrare nel salotto buono. Quel salotto di film “mai sentiti nominare”, dixit Rosario Fiorello, che ha colto immediatamente lo spirito della cerimonia, l’assenza di commedie e (più grave ancora) di spettacoli degni del nome.
“Siamo arrivati prima degli Oscar” ha dichiarato in un’intervista a Variety Piera Detassis, neo-direttore dell’Accademia del cinema italiano che assegna i David, nonché artefice del rinnovamento. In primo luogo delle giurie, svecchiate e bilanciate per genere, le donne erano pochissime: “Molti non votavano più, neppure lavoravano più nel cinema, non è stato indolore ma andava fatto. Volevo ristabilire il David’s Pride”. Confessa che avrebbe voluto un premio anche per le serie tv, ma la resistenza si è fatta sentire fortissima. Nessuna preclusione verso Netflix, invece, purché i film escano per sette giorni in cinque capoluoghi di provincia. In realtà gli Oscar, che volevano introdurre la categoria “Miglior film popolare”, si sono fermati in corsa. Prima di andare a sbattere creando un Oscar di serie A (roba che piace ai critici) e uno di serie B (roba che incassa).
Malignamente, in materia di David e considerati i trascorsi polemici, andrebbe ribattezzato “Premio Checco Zalone”.
Prima della cerimonia, l’incontro al Quirinale con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – accolto come “Full Metal Sergio” da Geppi Cucciari. A proposito dell’annosa questione “con la cultura si si mangia oppure no”, Mattarella ha espresso il suo pensiero: “Chi sostiene che la cultura non ha a che fare con l’economia, non è un vero economista”. Peccato. Per un attimo abbiamo sognato, e sperato che dicesse: “Chi sostiene che la cultura non ha a che fare con l’economia non è un vero uomo di cultura”.