Lo sguardo “radicale, inventivo”, lucidamente cocciuto di Agnès Varda
Novant'anni fortissimi. Addio alla prima regista oscar alla carriera
Milano. Lei con il caschetto di capelli magnificamente bicolori e la vitalità ironica dei suoi novant’anni (mancava poco a compierli) che attraversa il cortile di Fondazione Prada a Milano portando sottobraccio la sagoma cartonata di JR (il fotografo) è la sintesi perfetta di una vita, della capacità di prendere sul serio le cose e il cinema, ma senza diventare seriosa come accade a tanti artisti, con gli anni. Jean René, in arte JR (ma in onore al quello di Dallas), è stato l’ultimo compagno di avventura cinematografica – ma anche uno dei primi, perché le è sempre piaciuto fare da sola – per un film pieno di vita e senso, che classificare come documentario è impossibile, Visages Villages, premiato a Cannes nel 2017. Sono lui e lei, l’attrazione riuscita degli opposti, che si mettono in scena (mentre cantano viaggiando in furgone, mentre lui la spinge in una folle corsa sulla carrozzina tra i quadri del Louvre) girando la Francia minore per incontrare storie, persone, volti, difficoltà. La cornice narrativa di loro due insieme per la Francia non era un tanto per fare, serviva “per mettere la distanza tra il film e la semplice sociologia”, spiegò lei. E mettere una distanza – quella dell’arte, del cinema, di uno sguardo quantomai personale – tra sé e il soggetto,la storia, gli attori è sempre stato il suo modo per arrivare più vicina.
Di Agnès Varda si potrebbe fare un ritratto mettendo insieme tutti i suoi “no”, che per lei erano la strada per dire i suoi “sì” solo alle cose che voleva. “Un elettrone libero, progressista e totalmente fuori dal sistema”, la definì il Figaro lo scorso anno, quando a Los Angeles diventò la prima donna regista a vincere un Oscar alla carriera. A partire dal titolo di uno dei suoi film più noti, una doppia negazione, Senza tetto né legge, Leone d’oro a Venezia nel 1985 e consacrazione (César) per Sandrine Bonnaire. O a partire, ancora meglio, dalla Nouvelle Vague, in cui tutti l’hanno sempre inserita e acclamata “papessa” (i giornali francesi). “Non ho mai frequentato i registi della Nouvelle Vague”, rispondeva: era solitaria e lavorava da sola. E poi non è mai esistita, “non è stato un gruppo o un a teoria, come i surrealisti”. Una “iconoclasta”, come la presentarono agli Oscar? “Ma perché poi? Non ho mai rispettato le norme né le categorie”. Punto. Tenuta ai margini perché donna in un mondo di uomini? “Non è mai stato un problema. Non ho mai avuto il problema di impormi in quanto donna”. I guai, semmai, li aveva perché voleva fare solo film “radicali, inventivi”. La prima regista femminista? “Sono stata femminista molto prima”. No a partire dall’inizio, a partire dalla fine: “Non c’è nessuna fine. Nei laboratori di cinema degli anni ’60 sono stata una delle prime a rifiutare la parola ‘fine’”. Fotografa, artista, documentarista per troppo amore per la realtà, senza imitare nessuno, nemmeno Godard, nemmeno Jacques Remy, il marito cui fu legatissima, la via del cinema l’ha segnata. Con una grafia irregolare, unica, non replicabile. Era nata era nata a Ixelles, appena fuori Bruxelles, nel 1928. E’ morta ieri, a Parigi.