Una giusta causa
La recensione del film di Mimi Leder, con Felicity Jones, Armie Hammer, Justin Theroux, Sam Waterston, Kathy Bates
La causa è sacrosanta: spazzar via le leggi degli Stati Uniti che discriminano in base al sesso (“On the Basis of Sex” era l’originale). Però non siamo in tribunale, o a una riunione per i diritti civili. Siamo al cinema, nel 2019 si potevano scegliere un ritmo e un’estetica meno stantii. La regista Mimi Leder ha per modello i film degli anni 50. Quando alle studentesse di legge – a Harvard erano 9 su 500 – era lecito chiedere: “Perché occupate un posto che sarebbe potuto andare a un uomo?”. La storia di Ruth Bader Ginsburg, nominata nel 1993 da Bill Clinton giudice della Corte Suprema, meritava una sceneggiatura meno schematica. Ma anche qui, come in “Green Book” di Peter Farrelly, scontiamo il fattore parentale. Là c’era un figlio sceneggiatore, Nick Vallelonga. Qui la sceneggiatura è firmata da Daniel Stiepleman, nipote di RBG (così il documentario rivale dedicato a Ruth Bader Ginsburg, diretto da Julie Cohen e Betsy West e presentato al Sundance).
L’inesperienza e una malintesa forma di rispetto appesantiscono la vicenda, narrata per filo e per segno eppure confusa nei dibattimenti in tribunale. Ruth Bader Ginsburg non trova lavoro come avvocato (anche con la motivazione “le mogli degli altri avvocati sarebbero gelose”), comincia a insegnare, si imbatte un un caso che discrimina non una donna ma un maschio. Non può detrarre dalle tasse i soldi spesi per badare alla madre: è concesso solo alle donne, a loro spetta la cura.
Ruth Bader Ginsburg dà battaglia, e alla fine vince – mentre sui muri di New York compare la pubblicità di Cosmopolitan con Burt Reynolds nudo sulla pelliccia davanti al camino (è il modo scelto dalla regista per segnalare allo spettatore che i tempi sono cambiati). La vera Ruth Bader Ginsburg compare soltanto alla fine del film, dopo che ne abbiamo invocato l’arrivo per sfuggire alle scene casalinghe. Prima vediamo solo Felicity Jones e il marito modello (anche da malato) Arnie Hammer. Anche lui avvocato, si occupa di questioni fiscali ed è convinto che le tasse dichiarino i valori della nazione. Cose da sapere: nella Costituzione americana non c’è la parola “donna” ma neppure la parola “libertà”.
Politicamente corretto e panettone