I soliti noti a Cannes
Presentati i film del Festival (due assenti autorevoli). Le sirene della serialità richiamano registi di culto
ll giorno della marmotta. No, non si può dire, l’abbiamo già usato per qualche altro programma festivaliero, rischiamo il giorno della marmotta pure noi. Allora diciamo “i soliti noti”, non fosse che tra i soliti notissimi manca Woody Allen. Al festival di Cannes fu ben accolto anche quando sfotteva l’insana passione del festival per certi artisti che girano da ciechi, in “Hollywood Ending”. Ma ora Amazon tiene prigioniero il suo film, il regista ha fatto causa. Sarebbe bello se qualcuno trafugasse una copia di “A Rainy Day in New York”, e la proiettasse con tutti gli onori sulla Croisette, come certi titoli iraniani o cinesi sfuggiti alla censura.
Woody Allen non c’è, al momento neppure Quentin Tarantino con “Once Upon a Time in Hollywood” (sarebbero 25 anni da quando “Pulp Fiction” vinse la Palma d’oro). Capita che qualche titolo venga aggiunto dopo la conferenza stampa, non tutto è perduto. Presenti, come i primi della classe smaniosi di tornare a scuola, Pedro Almodovar con “Dolor y Gloria” (trama: regista sul viale del tramonto), Ken Loach con “Sorry We Missed You” (trama: fattorino che non riesce ad arrivare alla fine del mese), Terence Malick con “A Hidden Life” (dramma storico, per il regista più sopravvalutato in circolazione), i fratelli Dardenne con “Le jeune Ahmed”. In rappresentanza dell’Italia, Marco Bellocchio con “Il traditore”, sul pentito Tommaso Buscetta. Tra le nuove leve, sempre nei posti prenotati già prima di finire il film, il rumeno Corneliou Porumboiou con “The Whistlers” e il canadese Xavier Dolan (in “Matthias and Maxime” racconta i ventenni di Montreal).
Il manifesto 2019 per dovere e per amore commemora Agnès Varda, che a ottant’anni con il cinema si divertiva, e divertiva gli spettatori, molto più di quando ne aveva quaranta. Veglia sull’annoso dibattito “quota rosa in concorso”, e in generale nella selezione. Thierry Frèmaux è stato molto criticato, ora non sbaglia più. Sono quattro, le nostre speranze sono puntate su Jessica Hauser, la regista austriaca di “Lourdes” (detiene un record assoluto: parlava di miracoli, piacque agli atei e ai credenti). “Little Joe” racconta una madre e un figlio sotto l’incantesimo causato da una pianta, speriamo non sia finita anche lei sotto il malefico influsso di Greta. Le altre sono Celine Sciamma, Mati Diop, Justine Triet con “Sybil”: psicoterapeuta con la passione per la scrittura che subisce il fascino di una paziente (certe trame dovrebbero vietarle, per decenza). Ladj Ly – maschio e africano – si esercita su “Les Misérables”.
L’anno scorso il Grande Dibattito girava attorno a Netflix, espulsa dal concorso per volontà dei distributori francesi (la piattaforma ritirò i propri film: “Abbiamo un asso nella manica che si chiama ‘Roma’, merita di gareggiare e di vincere”). Quest’anno stesse regole d’ingaggio, solo film che escono in sala. La pietra del (futuro) scandalo potrebbe essere Martin Scorsese con “The Irishman”: ma stanno ancora lavorando di post-produzione, per ringiovanire gli attori, chissà quando lo vedremo.
Amazon porta al festival due episodi della serie diretta da Nicholas Winding Refn, “Too Old to Die Young” (debitamente isolati, non contagiano il cinema come Arte, i francesi ragionano così). Apre Jim Jarmusch con la zombie comedy “The Dead Don’t Die”, strarring Bill Murray e Adam Driver. Dopo anni di “The Walking Dead”, non moriamo dalla voglia di vederla. Mettiamo a verbale che le sirene della serialità sono un gran richiamo anche per i registi di culto cinefilo.
Politicamente corretto e panettone