L'esorcista di tette giganti
Tutto quello che Woody Allen ha girato negli anni 70 ma che oggi gli vieterebbero di girare. Dalla scrittura alla stand up comedy, all’apprendistato da regista. La biografia che non c’è
Giovedì 2 maggio, Alexandra Alter e Cara Buckley hanno scritto sul New York Times che Woody Allen, uno dei registi più longevi della storia (83 anni e 48 pellicole alle spalle), celebrato maestro della cultura americana contemporanea, alcuni mesi fa ha proposto in modo discreto a vari editori un memoir, ma nessuno ha accettato di pubblicarlo. Il problema è il movimento #MeToo, la giustizia sommaria e mediatica di cui per anni Allen è stato vittima, che ne ha provocato la damnatio memoriae. Sono state le stesse case editrici a spiegare al Times che, dal punto di vista commerciale e culturale, sarebbe rischioso pubblicare oggi un’autobiografia di Woody Allen, dati gli effetti del #MeToo, che già lo scorso anno aveva “costretto” Amazon a non distribuire più l’ultimo film del regista, “A Rainy Day in New York” (che comunque uscirà il 3 ottobre in Italia, distribuito da Lucky Red). Allora abbiamo pensato di produrla noi la biografia di Allen che nessuno vuole pubblicare, ma che di sicuro chiunque vorrebbe leggere, con la firma della nostra Mariarosa Mancuso.
Qui la prima puntata
“Prendi i soldi e scappa”, il primo vero film di Woody Allen, nel 1969 comincia a tracciare la mappa di Allenlandia, dove si posizioneranno una cinquantina di titoli. Incluso “A Rainy Day in New York”: la pietra dello scandalo al centro della causa milionaria (68 sono precisamente i milioni contesi) intentata dal regista contro Amazon che ha prodotto il film e lo tiene prigioniero. Uscirà in Italia il 3 ottobre, distribuito da Lucky Red. Magari andrà anche alla Mostra di Venezia: non è detto che i registi perseguitati dalla censura e ospitati in nome della libertà di espressione debbano essere soltanto iraniani o cinesi.
“A Rainy Day in New York”, la pietra dello scandalo al centro della causa milionaria contro Amazon, uscirà in Italia il 3 ottobre
Il Festival di Cannes ha perso la sua occasione, eppure Woody Allen era stato applaudito anche quando sfotteva i cinefili della Croisette e dei Cahiers du cinéma. In “Hollywood Ending” (2002) un regista sul viale del tramonto diventa cieco, eppure continua a girare il suo film, che viene stroncato dagli americani ma acclamato come un capolavoro dai critici europei – vale anche come gesto scaramantico, per un regista che ha sempre incassato più a Parigi che nel Midwest.
Non sta nella lista “Ciao Pussycat”, scritto e recitato su commissione del produttore Charles K. Feldman e diretto da Clive Donner: “Loro volevano un film ragazze-ragazze sesso-sesso, odiavo tutti e tutti mi odiavano, decisi che non volevo girare altri film se non avessi avuto io l’ultima parola”. E neppure “Che fai, rubi?”, rimontaggio e ridoppiaggio di un film giapponese alla James Bond, dove tutti si affannano attorno alla ricetta di un’insalata con le uova. Per consolarsi dagli intoppi cinematografici, Woody Allen cominciò a lavorare per il teatro, i commediografi sono più rispettati degli sceneggiatori. Aiutò anche il secondo divorzio, da Louise Lasser – dicono i maligni che qualche bega di famiglia si ritrova nella pièce “Provaci ancora Sam”, la vedremo al cinema diretta da Herbert Ross.
A celebrare il suo talento di scrittore era stato il New Yorker. I racconti arrivano in Italia con la benedizione di Umberto Eco
A celebrare il suo talento di scrittore, fuori dalle scene, era arrivato il New Yorker. Pezzi comici, come la rivista continua a pubblicare, per esempio firmati da David Sedaris, che ha raccontato la sua esperienza da Elfo di Babbo Natale (il peggior mestiere del mondo, pochi soldi e tante piccole pesti). Immaginate, oggi, una prestigiosa rivista letteraria che dà spazio a un comico da palcoscenico. Sembra un sogno, invece è l’effetto di un sistema che sa distinguere i bravi dai cialtroni, senza badare alle etichette.
I racconti di Woody Allen arrivano in Italia con la benedizione di Umberto Eco che li segnala e li fa pubblicare da Bompiani, riservandosi la prefazione: “Saperla lunga” esce nel 1973, seguito da “Citarsi addosso” e da “Effetti collaterali”. Un anno prima era uscito il film “Provaci ancora Sam”, con Humphrey Bogart (un sosia di Humphrey Bogart) che dà consigli di corteggiamento all’imbranato shlemiel Woody Allen, fresco di divorzio e attratto da Diane Keaton (per regalo, puzzole di plastica). La faccia, gli occhiali, i calzoni di velluto, i capelli arruffati del comico cominciavano a essere riconosciuti anche dagli spettatori italiani. Ma Eco è già nostalgico, ricorda quando Woody Allen lo conoscevano solo pochi carbonari amici suoi con frequentazioni americane, e lo annuncia nel titolo: “Un everyman per gli happy few”. “Provaci ancora Sam” è spassoso, a vederlo oggi, anche in materia di reperibilità: il marito di Diane Keaton è un maniaco del lavoro, ovunque vada, casa privata o ristorante, chiama per dare il numero di un telefono fisso a portata di mano, dove lo troveranno per la successiva mezz’ora. Mentre la consorte Diane Keaton e il migliore amico Woody Allen discutono su psicofarmaci e sonniferi, in giudiziosa accoppiata con i beveraggi.
Nel 2004 i racconti sono stati ritradotti da Daniele Luttazzi: il comico aveva trovato le vecchie versioni – alcune firmate da Cathy Berberian, mezzosoprano a suo agio con Monteverdi e con i Beatles, anche mischiati tra loro, fu per 14 anni la moglie di Luciano Berio – illeggibili, incomplete, scarse nel cogliere allusioni e riferimenti. Sarà che ne ricordiamo ancora qualcuna a memoria, ma non ci erano sembrate tanto brutte. Le battute funzionavano, e anche le parodie letterarie.
Per esempio, ai danni di Madame Bovary: un professore di nome Kugelmass, con l’aiuto di un mago, riesce a entrare nel romanzo, a corteggiare Emma e a portarla con sé a New York (dove la signora pretende cene fiori e gioielli, non è uscita dalla provincia mica per niente). La parodia della detective story indaga su un bordello intellettuale dove ci si può intrattenere a pagamento con una fanciulla che parla di “Moby Dick” (“ma il simbolismo è extra”) oppure affittare due belle ragazze che sviscerano l’“Ulisse” di Joyce. Frizzi e lazzi anche sul balletto classico, sui filologi che analizzano le liste della lavanderia dei pensatori celebri, sui tentativi del conte di Sandwich di inventare il panino imbottito come noi lo conosciamo. E un carteggio tra Vincent Van Gogh e il fratello Theo, intitolato “Se gli impressionisti fossero stati dentisti”: “Ho fatto delle radiografie questa settimana che mi parevano piuttosto buone. Degas le ha viste e non gli sono piaciute”.
“Prendi i soldi e scappa”, dunque. Visto oggi sembra anticipare “Documentary Now”, la serie (scritta da Fred Armisen, Bill Hader e Seth Meyers del “Saturday Night Live”, che mette in burletta il genere documentario. Da “Siamo qui tra il sibilare dei proiettili…” a “andiamo a vedere chi sono le barbone che vivono in questa villa…”, va forte anche “conosciamo gli esquimesi, venite con me…”. E’ un mockumentary attorno a un rapinatore di banche totalmente inetto, i genitori per la vergogna rilasciano interviste mascherati con gli occhiali e il naso di Groucho Marx, grande passione del regista (non sono i veri Martin e Nettie, il realismo non arriva a tanto, ma sono parecchio somiglianti). Non sa scrivere i biglietti minacciosi – il cassiere legge “siete tutti sotto giro”, lui insiste: “‘Sotto tiro’, non vede che c’è scritto ‘sotto tiro’”?. Per scappare dal carcere intaglia una pistola nel sapone, dipingendola di nero con il lucido da scarpe (il giorno dell’evasione fuori piove).
L’altra irruzione nel documentario arriva una quindicina di anni dopo, nel 1983, con “Zelig”. Di tutti i film di Woody Allen il più commentato e analizzato (gli altri grazie al cielo sono stati quasi tutti presi “at face value”, godendosi la superficie; il “quasi” riguarda le esercitazioni del regista alla maniera di Ingmar Bergman). Non manca il riferimento a un’infanzia che nessuno vorrebbe rivivere, raccontata questa volta dal narratore fuori campo, con la cadenza da cinegiornale: “Da ragazzo, Leonard Zelig è tiranneggiato spesso dagli antisemiti. I suoi genitori, che non prendono mai le sue parti e lo incolpano di tutto, stanno con gli antisemiti”.
Liquidata l’infanzia, Zelig si confonde con gli sfondi che attraversa, come fa adesso l’artista cinese Liu Bolin (e con altrettanta destrezza tecnica, per proiettare Woody Allen dentro i filmati di repertorio degli anni 20 e 30). L’uomo-camaleonte viene esaminato da psicoanaliste e psicoanalisti, commentato da scrittori e saggisti che si prestano al gioco: Bruno Bettelheim, Susan Sontag, Saul Bellow (gli altri intellettuali che possono vantare una comparsata woodyalleniana sono Marshall McLuhan e Truman Capote in “Io e Annie”). Psicotico o nevrotico? Chi lo sa? L’unica certezza, chiosa il regista in un altro film, è che lo schizofrenico non soffre mai di solitudine.
L’irruzione nel documentario: da “Prendi i soldi e scappa” a “Zelig”, con l’uomo-camaleonte commentato da scrittori e saggisti
“Il dormiglione” è un film del 1973, racconta un uomo rianimato dopo 2 secoli di ibernazione. Woody Allen si maschera da robot per mimetizzarsi, con un casco in testa tipo colapasta e un altoparlantino che gli copre la bocca, per simulare la voce metallica (il suo migliore travestimento assieme allo spermatozoo-con-paracadute” in “Tutto quel che avreste voluto sapere sul sesso… ma non avete mai osato chiedere”, mentre laggiù nella sala macchine uomini sudati in canottiera girano manovelle per mantenere l’erezione). Con la scusa della distopia, sfotte un po’ di vizi della nostra epoca, che erano già vizi di mezzo secolo fa: l’ibernato tornato in vita aveva un ristorante vegetariano. “Come è possibile che non avessero capito il valore nutrizionale delle bistecche, oltre che delle torte e delle merendine?” si chiedono gli scienziati del 2173, quando un ristorante salutista sembra un’assurdità.
In “Tutto quello che fa male ti fa bene”, il saggista Steven Johnson prende spunto dalle disprezzate merendine e bistecche per teorizzare “La curva del dormiglione” e applicarla ai consumi culturali. “Come avranno fatto a non accorgersi i nostri padri e nonni di quanto la deprecata televisione fosse tutt’altro che deprecabile, che le serie richiedevano spettatori intelligenti e non erano affatto l’oppio del popolo?”. Questo rischiavano di dire di noi i posteri, per fortuna la tendenza si è invertita e la serialità televisiva viene studiata seriamente (in Italia resta esemplare “Buona maestra” di Aldo Grasso). Rivelandosi spesso più completa e intelligente di molti romanzi candidati al Premio Strega.
“Come avranno fatto a non accorgersi della genialità Woody Allen?”, diranno invece certamente di noi i posteri, ripensando a questi anni bui. Si chiederanno anche se conosciamo la differenza tra la giustizia e la gogna. Le accuse contro il regista sono state archiviate nel 1993, non c’erano neppure gli estremi per avviare un processo, e nello stesso anno medici e psicologi chiamati a perizia confermarono che nulla di sconveniente era accaduto. Né in soffitta né altrove (alla parola “soffitta”, Woody Allen ebbe ancora la forza di scherzare: “La mia claustrofobia mi tiene lontano dalle soffitte). E si chiederanno cosa può aver spinto attori e attrici che avevano felicemente lavorato con lui – per un ruolo nei suoi film, anche piccolo e a paga sindacale, c’era la fila e bisognava distribuire i numeretti – a rinnegarlo. Ah, se avessi saputo… Ah, se me lo avessero detto… Ah, il mio cuore di donna sanguina al solo pensarci… Perfino i critici del New Yorker fanno esercizio di pentitismo, rivedono i suoi film per prendere nota di ogni cedimento verso le ragazzine, e ancora rabbrividiscono. Ci si domanda se avessero mai visto “Manhattan”, prima.
“Io e Annie”: lei si interroga sulla propria avvenenza e intelligenza, lui vuole solo sapere se uscirà a cena con lui e si tratterrà per il dopocena
“Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso…” è un film a episodi del 1972, dal bestseller del sessuologo David Rueben (sono rimaste solo le domande). Oltre agli spermatozoi, addestrati come soldati secondo il canone classico dei film di guerra, c’è Burt Reynolds alla sala comandi, a capo degli scienziati che governano l’erezione: “La stiamo perdendo, la stiamo perdendo” (lo stesso anno l’attore era apparso nudo, sdraiato su una pelliccia, nel paginone centrale di Cosmopolitan). In un altro episodio, Woody Allen brandisce un crocifisso per esorcizzare una tetta gigante che per difendersi sprizza latte dal capezzolo.
Scene che si potevano girare negli anni 70, oggi ci sarebbe la coda per protestare, vietare, lamentare il proprio disagio innalzato a misura del mondo. Sappiano comunque le anime sensibili che una tetta gigante compare anche in un racconto di Philip Roth uscito nello stesso anno. Un professore di letteratura comparata, tale David Kepesh, dopo una notte di sogni inquieti si sveglia trasformato in una mammella da 70 chili. Altro che scarafaggio.
Compiuto il passaggio dalla scrittura alla stand up comedy, resta da compiere il passaggio dagli sketch al film vero e proprio. “Amore e guerra” ancora funziona per scenette, anche se la trama c’è – “la vita come un romanzo russo” si potrebbe dire per omaggiare Emmanuel Carrère – tra un omaggio Tolstoj e uno a Dostoevskij. Tra una cugina Sonia, un attentato a Napoleone, una condanna a morte ritardata di un’ora (ho avuto un buon avvocato), un pezzo di terra tanto piccolo che sta in tasca.
L’apprendistato da regista finisce con “Io e Annie” (1977). Quando la moda la dettava il cinema, gli abiti maschili oversize di Diane Keaton si imposero. Assieme alla scena del corteggiamento: ascoltiamo quel che Alvy e Annie si dicono, e i sottotitoli rivelano quel che pensano davvero. Lei si interroga sulla propria avvenenza e intelligenza, lui vuole solo sapere se uscirà con lui a cena e si tratterrà per il dopocena. Da qui la battuta (successiva, ora siamo ancora nel periodo prude): “Il sesso non è la risposta, il sesso è la domanda, sì è la risposta”.
(2. continua)
Politicamente corretto e panettone