E poi tutti gli dissero #Metoo
Ma perché uno che ha la fortuna di essere Woody Allen sogna di essere Ingmar Bergman? I molti alti e molti bassi di una carriera da comico innamorato delle tragedie
Giovedì 2 maggio, Alexandra Alter e Cara Buckley hanno scritto sul New York Times che Woody Allen, uno dei registi più longevi della storia (83 anni e 48 pellicole alle spalle), celebrato maestro della cultura americana contemporanea, alcuni mesi fa ha proposto in modo discreto a vari editori un memoir, ma nessuno ha accettato di pubblicarlo. Il problema è il movimento #MeToo, la giustizia sommaria e mediatica di cui per anni Allen è stato vittima, che ne ha provocato la damnatio memoriae. Sono state le stesse case editrici a spiegare al Times che, dal punto di vista commerciale e culturale, sarebbe rischioso pubblicare oggi un’autobiografia di Woody Allen, dati gli effetti del #MeToo, che già lo scorso anno aveva “costretto” Amazon a non distribuire più l’ultimo film del regista, “A Rainy Day in New York” (che comunque uscirà il 3 ottobre in Italia, distribuito da Lucky Red). Allora abbiamo pensato di produrla noi la biografia di Allen che nessuno vuole pubblicare, ma che di sicuro chiunque vorrebbe leggere, con la firma della nostra Mariarosa Mancuso. Qui la terza e ultima puntata.
Qui la prima puntata
Qui la seconda puntata
Successo raggiunto quando i coetanei non hanno ancora deciso cosa faranno da grandi, risultati al botteghino più che rispettabili, un personaggio riconoscibile che va in scena senza passare dal costumista, vestito come nella vita: camicia a scacchi su pantaloni sformati, occhiali-icona con montatura nera. E il controllo totale sui suoi film, che Woody Allen continua a scrivere a mano, preferibilmente stando sdraiato sul letto.
Ha già ottenuto il controllo totale sui suoi film, che continua a scrivere a mano, preferibilmente stando sdraiato sul letto
Cosa può fare a questo punto un genio della comicità? Decide che il tragico è un genere più nobile, e che è arrivato il momento di mettere a frutto i pomeriggi passati guardando i film di Ingmar Bergman. La scintilla scoppia con “Monica e il desiderio” (che secondo Jean-Luc Godard sfoggia “il primo piano più triste della storia del cinema”), ravvivata da “Una vampata d’amore”: un direttore di circo che, deluso dalla moglie e dall’amante, sul punto di suicidarsi, spara a un orso. Quando arrivano “Il posto delle fragole” e “Il settimo sigillo”, è ormai passione consolidata.
Nel 1978 “Interiors” interrompe una magnifica carriera che fino ad allora si era tenuta felicemente in superficie. Woody Allen fa un passo indietro, non compare come attore per non indurre gli spettatori in confusione. Lascia la scena a tre sorelle complicate – una è Diane Keaton, poetessa sposata a uno scrittore, entrambi tormentati (e mai qualcuno che stemperi la pesantezza con una battuta). Il padre annuncia che se ne andrà di casa, una sorella tenta il suicidio, tornano i rancori dell’infanzia (il genitore fedifrago poi torna con una fidanzata più vivace, e via con altri drammi).
Il film ha i suoi fan, noi non siamo mai riusciti a farcelo piacere. Lo stesso vale per “Crimini e misfatti”, posizionato bassino nella lista delle preferenze. Vale per “Stardust Memories”, dove il regista europeo di riferimento è Federico Fellini. Vale per “Un’altra donna”, che vanta come direttore della fotografia Sven Nykvist, arrivato dritto dai set bergmaniani, quindi abilissimo a illuminare anime rimuginanti.
Non abbiamo amato neanche certi film di routine – o turistici, quando gli incassi americani erano scesi al punto che nessuno in patria voleva più produrre i suoi film. E quindi i soldi andavano cercati nella più generosa Europa, dove i film alleniani ancora incassavano: Londra, Parigi, Barcellona, Roma. Ma esiste una legge non scritta, e purtroppo molte volte confermata: i registi lontani dal loro habitat naturale rendono meno che a casa, e più vanno lontani peggio riescono. Figuriamoci uno come Woody Allen che ha bisogno di New York come dell’aria (si spingeva in campagna solo perché Mia Farrow aveva una casa, non è finita benissimo).
Cedimento momentaneo, si pensava allora. Cercando consolazione nel fatto che dopo “Interiors” era arrivato l’impeccabile “Manhattan”: il genere di film che, se non vi piace, allora non vi piace proprio il cinema. Bianco e nero strepitoso, battute che si ricordano a distanza di anni – “Eri così bella che non riuscivo a staccare gli occhi dal tassametro”; “Non avevo mai bevuto chianti di Varsavia”. Lo scambio: “Tu ti credi Dio!” / “Dovrò pure avere un modello”. Il tormentone di Diane Keaton: “Io sono di Filadelfia”.
C’era l’elenco delle dieci cose per cui vale la pena di vivere, che comincia con Groucho Marx, seguono i film svedesi, Louis Armstrong, le mele e le pere dipinte da Cézanne (il settimanale satirico “Cuore” girò la domanda ai lettori, chiedendo le loro liste, i risultati furono da bar sport). E le musiche di George Gershwin, che con il fratello Ira ha firmato i musical più belli di sempre (anche Woody Allen si toglierà lo sfizio di girare il suo, molti anni dopo: “Tutti dicono ‘I love you’”). E chi non ha mai cercato a New York la panchina con vista sul Queensboro Bridge?
Invece i film cupi tornano, e insieme la domanda: “La vita è comica oppure tragica?”, “bisogna buttarla sul ridere o piangersi addosso?”. Il dilemma viene discusso all’inizio di “Melinda e Melinda”, uscito nel 2004. Si confrontano due scrittori di teatro, durante una cena (nel mondo di Woody Allen è difficile trovare idraulici, anche se non è domenica). L’arrivo inaspettato della ragazza Melinda scatena la sfida. Dando origine a due mezzi film, uno che vira sul tragico, l’altro sul comico. Cominciano entrambi con un tentato suicidio, perché le cose brutte accadono, e hanno svolgimenti diversi. Lo spettatore osserva con curiosità il gioco. Ma è appunto un gioco, quel che accade alla ragazza – l’australiana Radha Mitchell, una delle poche a non uscire miracolate dall’incontro con il regista – non intristisce né fa ridere.
Nel 1978 “Interiors” interrompe una magnifica carriera che fino ad allora si era tenuta felicemente in superficie
A ogni film cupo, tornava la domanda: “Ma perché uno che ha la fortuna di essere Woody Allen sogna di essere Ingmar Bergman?” (solo un Woody Allen in forma smagliante potrebbe risponderci: anche questo potrebbe essere un capitolo interessante dell’autobiografia da cui gli editori perbene stanno alla larga, c’è il rischio che le scrittrici sensibili e impegnate passino alla concorrenza). Ma al ritmo di un film l’anno – non interrotto neppure quando gli anni sono diventati sessanta, settanta e ottanta nel 2015 – bastava distrarsi un attimo e non infierire. Tornavano subito le trame comiche, ma non per questo meno rispettose delle sofferenze umane.
In certe interviste Woody Allen dice che la disciplina del lavoro tiene lontane le angosce con più efficacia dello strizzacervelli. In altre sostiene che così può vivere “dentro un mondo meraviglioso, popolato da belle donne e uomini arguti e situazioni drammatiche e costumi e scenografie, dove posso manipolare la realtà”. A parte la realtà da manipolare, troviamo qui lo spunto per “La rosa purpurea del Cairo”, con Mia Farrow che durante la Grande Depressione guarda e riguarda le gesta dell’avventuriero Tom Baxter. Al punto che Tom Baxter, a furia di vederla in prima fila trepidante, esce dallo schermo per portarla via con sé. E gli spettatori son furiosi, perché devono aspettare il ritorno dell’eroe, non si quanto durerà la tresca.
Più meno quel che succedeva nel racconto pubblicato sul New Yorker, con il professor Kugelmass che porta via Emma Bovary da romanzo di Gustave Flaubert (provocando un certo scompiglio: “Chi è quel pelato accanto a Madame Bovary?” si chiede uno studente che ha aperto il romanzo e ha trovato qualcosa di diverso dal solito). L’uscita dallo schermo è un piccolo classico nei racconti di fantascienza all’epoca pionieristica della tv, quando erano gli uomini dentro lo schermo a gettare un occhio curioso sul mondo là fuori, e a stupirsi perché dall’altra parte del tubo catodico non arrivava la censura a inquadrare il caminetto quando sul divano la situazione cominciava a farsi rovente. Una bella gag tecnica, da mettere accanto all’uomo “fuori fuoco” Robin Williams, in “Harry a pezzi”: si sente poco bene, e per quanti sforzi faccia il direttore della fotografia, sulla pellicola resta una macchia senza fisionomia.
Una cinquantina di film, più “Crisis in Six Scenes”, anche questo prodotto da Amazon quando i rapporti erano buoni, e non era ancora scattata l’accusa di insensibilità. “Tone-deaf”, nella versione originale: si è saputo quando il regista ha fatto notare che la sua vicenda giudiziaria era già nota al mondo, anche nella sua inconsistenza, quando il contratto è stato firmato. L’hanno chiamata serie, in realtà è un lungo film spezzato in sei parti, e pur non avendo nulla di nuovo è un delizioso ripasso del Woody Allen più ebraico (come sarà “Café Society”, ambientato in altra epoca e con Jesse Eisenberg perfettamente calato nella parte). Lo schlemiel è diventato vecchio, ma non ha perso nulla dei suoi timori e delle sue incertezze di fronte al mondo. Teme ancora che, secondo il vecchio detto, possa cadere sulla schiena e rompersi il naso.
Ogni tanto anche a Woody Allen capitano i passi falsi. Largamente compensati dai gioielli della corona come “Broadway Danny Rose”, omaggio all’impresario teatrale ebreo un po’ sfigato. La scena in cui provano il numero degli strozza-palloni – “no secondo me prima del coniglio devi fare la giraffa, è più d’effetto”, incastrando palloncini a forma di bassotto – è un commovente monumento ai soldati semplici dello spettacolo, sempre in seconda terza o quarta fila, ma ostinati nel fare bene il loro lavoro.
Ha bisogno di New York come dell’aria (si spingeva in campagna solo perché Mia Farrow aveva una casa, non è finita benissimo)
Altra perla, “Pallottole su Broadway”: satira feroce degli intellettuali, in questo caso gli scrittori di teatro, che discorrono per ore di integrità artistica e poi sono disposti a tutto pur di andare in scena. Anche a sopportare come prima attrice la pupa del boss che finanzia lo spettacolo, bella ma incapace di dire una battuta. Va sul set con la guardia del corpo Chazz Palminteri, che armato assiste alle prove, comincia a dare qualche consiglio (per esempio su come si comportano i gangster), fa riscrivere le battute che suonano male, e infine ammazza l’attrice cagna: non le permetterò di rovinare il mio spettacolo.
Altra perla ancora, “Commedia sexy in una notte di mezza estate”, da William Shakespeare. Con l’infermiera Julie Hagerty che spiega il sesso a Mary Steenburgen: “E’ come il nuoto, devi seguire il ritmo della bracciata, poi quando il tasso spermatico è alto i maschi fanno quello che vuoi” (vista dall’esterno, è la scena degli spermatozoi in “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso…”).
Le attrici nei film di Woody Allen all’inizio cambiavano secondo l’avvicendarsi delle consorti. La seconda moglie Louise Lasser era una doppiatrice in “Che fai, rubi?”, la rivediamo (anche se non la riconosciamo) in “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso…” e nel “Dittatore dello stato libero di Bananas”. Poi c’è la fase Diane Keaton, poi la fase Mia Farrow. In “Radio Days”, forse il film più autobiografico di Woody Allen – la famiglia anni Trenta che ascolta la radio in religioso silenzio, guardando fisso il mobiletto che contiene l’apparecchio; l’unico appuntamento rimediato dalla zitella di casa proprio quando Orson Welles annuncia lo sbarco dei marziani – ci sono entrambe. Era il 1987, stesso anno di uscita del malinconico “September”: Woody Allen lo aveva scritto con in mente la casa di Mia Farrow nel Connecticut. E pensava di girarlo lì, poi cambiò idea perché era arrivato l’inverno.
Il ciclo si interrompe con Soon-Yi. Una schiera di spettatrici è dolorosamente costretta a prendere atto che neppure Woody Allen vuole un tipo come Diane Keaton come fidanzata (e noi c’eravamo illuse che fosse quello il suo ideale di fanciulla). Comincia la sfilata delle attrici che vogliono lavorare con lui, salvo prendere le distanze – come ha fatto Greta Gerwig, che recita in “A Rainy Day in New York” accanto a Timothée Chalamet, pentito pure lui per i terribile misfatto – quando il #MeToo lo rende persona da cui prendere le distanze. Solo in “Tutti dicono ‘I love you’” c’erano Julia Roberts, Drew Barrymore, Nathalie Portman. La lista continua con Emma Stone, Noemi Watts, Evan Rachel Wood, Patricia Clarkson, Charlize Theron, Cate Blanchett (e la strepitosa Sally Hawkins, che poi rivedremo in “La forma dell’acqua” di Guillermo del Toro).
La lista delle attrici che facevano a gara per comparire nei suoi film. La lista dei suoi sosia, quando fare l’innamorato non era più cosa
Gli attori nei film di Woody Allen sono sempre Woody Allen, almeno finché nella parte del innamorato tormentato non rischia il ridicolo. La sua prima controfigura è stato Kenneth Branagh in “Celebrity” (scelta pessima, e si era già un po’ oltre il tempo massimo). Poi c’è stato Larry David – uno dei creatori della serie “Seinfeld” in “Basta che funzioni”: film un po’ eccentrico, rispetto ad Allenlandia, infatti è un vecchio copione scritto da Woody Allen negli anni 70 per il suo amico Zero Mostel, altro comico ebreo. Il più azzeccato è l’ultimo, vale a dire Jesse Eisenberg: l’unico assieme a Alec Baldwin che fa somigliare vagamente “To Rome With Love” a un film di Woody Allen – come per “Vicky Cristina Barcelona”, la distanza da casa qui era massima, e gli effetti disastrosi. A Parigi è riuscito a limitare i danni, ma “Midnight in Paris” punta soprattutto sull’effetto sorpresa, e sulla curiosità di sapere chi fa chi, nella Ville Lumière degli anni Venti. Il nostro preferito è Adrian Brody con i baffi di Salvador Dalì.
A Londra quasi la distanza non si nota, come dimostra lo strepitoso “Match Point” con Scarlett Johansson, il film che ha risollevato Woody Allen dalla seconda fase calante (non era male neanche “Scoop” dove Woody Allen nei panni del mago Splendini dà miglior sfogo, rispetto a “Magic in the Moonlight”, alla sua passione giovanile per i giochi di prestigio). Dalla prima fase calante era uscito grazie all’altrettanto strepitoso “Harry a pezzi”, e a un bell’inferno dove sistemare gli amici, i conoscenti, le mogli, le amanti che lo accusano di rubare la loro vita per farne romanzi. Assieme agli avvocati, agli assicuratori, all’inventore delle finestre in alluminio anodizzato. Oggi ne avrebbe molti di più, di nemici da far bruciare tra le fiamme. (per i pacifisti e i cultori del dialogo: i nemici vorrebbero bruciare lui, e sono stati loro a cominciare).
Gli siamo e saremo sempre grati per aver messo i titoli di testa all’inizio del film, bianchi in carattere tipografico Windsor su fondo nero (non quando ormai non li aspettiamo neanche più). Accompagnati da splendide canzoni del classico repertorio americano e jazzistico. Merita un monumento per le innumerevoli volte che ci ha fatto ridere. Perché la vita, di suo, tende verso la tragedia. Ma soltanto i comici sanno raccontarla bene.
(3. fine)
Politicamente corretto e panettone