Per un film sulla Hollywood del '69 il solo western di serie B risulta pesante
Un Quentin Tarantino appassionato ma meno scatenato del solito
Cannes. Prima del film di Tarantino a Cannes, il film di Cannes che piace a Tarantino. L’uomo di “Pulp Fiction” – 25 anni fa sulla Croisette, e fu subito Palma d’oro – ha molto apprezzato “The Wild Goose Lake” di Diao Yinan, suo rivale nel concorso. Il regista cinese aveva vinto la Berlinale 2015 con “Black Coal Thin Ice”, ribattezzato “Fuochi d’artificio in pieno giorno” per i rari spettatori italiani che tappo pagato il biglietto (incasso di tre settimane, circa 70 mila euro). “Il lago delle oche selvatiche” è un noir americano trasportato in Cina.
Naturalmente i bassifondi sono più bassifondi, e al posto degli hamburger ci sono i noodles, e invece delle automobili si rubano le motociclette (vediamo anche una lezione di scasso, con esercitazione pratica). Le ragazze perdute non si trovano al night ma sulle barchette con il parasole. È sempre notte, con le luci al neon (anche nelle suole delle scarpe) e le sigarette accese a due per volta. Trama: il protagonista, inseguito da poliziotti e i criminali, vorrebbe che i soldi della taglia andassero alla consorte.
È l’unico film cinese in gara quest’anno per la Palma d’oro. Intanto i molti buyer arrivati dalla Cina per il Marché du film (il colossale mercato dove si cedono i diritti per la distribuzione e si siglano i contratti di pre-produzione) sono rimasti spiazzati. Hanno soldi da spendere, ma resta la questione dei dazi di Donald Trump, e delle contromisure. Potrebbe esserci via libera solo per i blockbuster americani, che hanno in Cina un gigantesco mercato. Ma potrebbero esserci difficoltà per gli altri film.
“C’era una volta a… Hollywood” non è – lo diciamo con dolore – il miglior Quentin Tarantino della nostra vita. In Italia uscirà a metà settembre, dopo che ci avevano illuso con la promessa di un’estate ricca di grandi titoli, e chissà se per allora avranno tolto i puntini di sospensione dal titolo (così è da scribacchini dilettanti). Era il film più atteso del concorso, accompagnato da una preghiera del regista: “Non svelate la trama” (sarà una battaglia persa).
Si può dire che “C’era una volta a Hollywood” è un Tarantino meno scatenato del solito. Leonardo DiCaprio (sempre sublime) è un divo di western televisivi, con la fedele controfigura Brad Pitt. Il lavoro scarseggia, il viale del tramonto è appena girato l’angolo, lo stuntman serve come autista e all’occorrenza come riparatore di antenne a torso nudo (la potrebbe aggiustare con la maglietta, vale come citazione da “Thelma e Louise”). Tenta un passaggio al cinema, gli fanno recitare cose orrende, e lui beve troppo whiskey sour per ricordarsi le battute. Finisce per girare qualche film in Italia con Sergio Corbucci – questo non è spoiler, il ci sono i finti poster sull’account ufficiale twitter.
Come genere di riferimento per un film sulla Hollywood del 1969 – pochi giorni prima del massacro perpetrato da Charles Manson – il solo western di serie B risulta po’ pesante. Hollywood risultava più variata in “Ave, Cesare!” dei fratelli Ethan e Joel Coen (l’industria del cinema non ha perso l’innocenza una volta sola, anche prima si davano parecchio da fare). Lo stuntman offre un passaggio a un’autostoppista che gli regala una sigaretta imbevuta di acido lisergico (servirà, come la pistola di Cechov che deve sparare prima o poi). E lì ci sono gli hippie scoppiati, in un ranch che era stato usato come set cinematografico.
C’è la passione divorante di Quentin Tarantino per il cinema di serie B, ci sono gli attori che accettano di imbruttirsi, c’è Margot Robbie nella particina di Sharon Tate appena tornata da Londra con Roman Polanski (va a vedersi al cinema e chiede uno sconto sul biglietto da 75 centesimi). Ci sono tanti piedi nudi di belle donne. Il patto da onorare con il regista vieta di spifferare il finale, ma non impedisce di suggerire che qualche sforbiciata sulle quasi tre ore avrebbe giovato (ma ancora si può fare). Ma nei western si parla troppo poco, per un regista e sceneggiatore che ha sempre dato il meglio di sé nei dialoghi.