“Right now”. Le risate di prima se ne sono andate
Lo spettacolo di Ansari riabilitato dopo il #metoo è una noia pazzesca
Roma. Aziz Ansari è tornato sul palcoscenico, su Netflix, sui giornali, a New York, a fare il comico, al suo lavoro, alla sua vita. E ha pure una fidanzata. Sta bene, dice. Il suo nuovo spettacolo si chiama “Right now”, e in quel now ci sono il sollievo per la penitenza finita e la garanzia della lezione appresa. Ansari non ha lavorato per quasi due anni, e ricorderete la sua storia: a un certo punto una ragazza aveva raccontato di essere andata a cena con lui, poi a casa sua, e di essersi sentita a disagio, e che lui ci aveva messo troppo tempo e troppi baci prima di capirlo e chiamarle un taxi. E c’era voluto nulla per trasformarlo in un molestatore predatore sessuale maschio tossico (lo scrivevano i giornali di tutto il mondo, Twitter, Facebook, e glielo dicevano anche produttori, ex colleghi, amici).
Da allora, lui non ha rilasciato dichiarazioni, ha fatto qualche breve apparizione in qualche teatro molto off e, come dice all’inizio di “Right Now”, ha avuto molta paura, ha sofferto, si è sentito umiliato e dispiaciuto per avere ferito quella ragazza, e soprattutto, dopo aver riflettuto a lungo, si è reso conto che il suo calvario era servito a fare in modo che altri uomini si mettessero in questione come aveva dovuto fare lui. Lo spettacolo è divertente un decimo di quelli precedenti, intelligente allo stesso modo, brioso quasi per niente, dimesso come niente nella carriera di Ansari, che per sottolineare che “Il vecchio Aziz, quello di ‘Fatti un regalo’, è morto”, s’è presentato in scena con un paio di pantaloni slavati e una maglietta dei Metallica ancora più slavata.
In “Fatti un regalo” Ansari aveva trent’anni, il completo scuro, il gel nei capelli e diceva cose come “gli stereotipi spesso sono fondati”; “quando faccio sesso con una bianca penso alle persone contrarie ai matrimoni gay: vi garantisco che non c’è niente di meglio che avere un orgasmo mentre pensate ai passi in avanti che il nostro paese ha fatto per i diritti civili”; immaginava conversazioni tra insegnanti e genitori di bulli che dicevano loro: “Senta, mio figlio è orribile, lo so, cosa posso farci? E’ una cosa che va accettata”; paragonava le donne ai tacos e diceva di farlo non perché non rispettasse le donne ma perché rispettava i tacos. Ed era molto, molto scurrile. Adesso è diverso.
Quell’Aziz è stato pensionato dalla storia, processato dal #metoo, detestato da sé stesso, disintossicato dal terrore di non poter più salire su un palco. Adesso parla dell’Alzheimer di sua nonna, della spirale della sua fidanzata – “una volta l’ho colpita e mi sono fatto male, ed è stata dura tornare in quella vagina dopo un’aggressione così” – delle battute che non farà mai più su suo cugino grasso indiano. Adesso dice al pubblico quanto gli è grato, lo invita a chiudere gli occhi per pensare ai momenti migliori con la propria famiglia e pure al modo migliore per godersi quella serata in cui lui e loro sono lì insieme, a ridere, a pensare, a dirsi quanta ipocrisia c’è in giro e quanto ipocriti sono, siamo tutti.
Siamo tutti shitty people, ma questa non è una ragione valida per non fare niente per cercare di esserlo di meno – e saluti a quel così liberatorio “mio figlio è uno stronzo, è una cosa che va accettata!”.
Dobbiamo tutti migliorare, e i comici pentiti si candidano a farne testimonianza, diventarne prova viva, e poco importa se ci annoieranno moltissimo e per sentire una battuta sincera e non riveduta e corretta dal vulnerabilometro ci toccherà tornare ai vecchi film, quelli che si giravano quando nessuno finiva accusato di razzismo per aver detto “negromante”.
Tra cinquant’anni, quando ripenseremo a quelli che abbiamo graticolato per aver dato troppi baci e squallide carezze, e a quanta corda abbiamo dato a indignati bravi con gli hashtag ma incapaci di aprire un vocabolario, “ci sentiremo dei bastardi”. Parola di Aziz Ansari, quello sopravvissuto.