La pubertà di Netflix
La piattaforma soffre sempre di più la concorrenza e lancia altre tre stagioni di “Big Mouth”
Alla fine di “Inside Out” – in cima alla lista degli imperdibili film targati Pixar, diretto da Pete Docter – le emozioni in lotta per il comando nella testa di Riley trovano una una pace provvisoria. La ragazzina fa i conti con la nostalgia per il Minnesota, dove giocava a hockey e la pizza era gustosa, non con i broccoli come si usa a San Francisco. La Tristezza viene riammessa tra la Gioia, la Rabbia, il Disgusto, la Paura. Le Isole della Personalità crescono e si arricchiscono. Sembra tutto perfetto, davanti alla nuova consolle che ha sostituito la vecchia. La Gioia celebra lo scampato pericolo: “E ora, cosa potrà mai succedere?”. Proprio quando lo spettatore nota un segnale d’allarme rosso con la scritta “Pubertà”.
Finale aperto per un seguito, abbiamo pensato. Era il 2015, potrebbe ancora arrivare (se solo la Disney, casa madre della Pixar, smettesse di rifare i suoi classici con la realtà virtuale, il nuovo “Re Leone” nella savana non è stato mai). Per ora, supplisce Netflix: nella sua rincorsa alla nicchia più nicchia, ha lanciato due anni fa la serie animata “Big Mouth”. L’idea è riempire ogni spazio. In questo caso, per attirare il potenziale pubblico sprovvisto di una serie generosa di patemi e di orrori adolescenziali, raccontati con maniacale attenzione ai brufoli (e altre sgradevolezze).
Gli spettatori c’erano, e anche i fan. Dopo due stagioni (20 episodi in tutto, più lo speciale per San Valentino) la serie è stata rinnovata per altre tre. Come sempre, la piattaforma streaming – che ormai comincia a patire un po’ la concorrenza – è restia a fornire dati sui singoli prodotti. E in controtendenza con la politica “pigliatutto”, nell’ultimo trimestre l’aumento degli abbonati è stato inferiore alle attese.
“Big Mouth” sta per “linguaccia”, i ragazzini protagonisti hanno il linguaggio sboccato della loro età, soprattutto in materia di sesso. Per i maschi, la quasi totalità dei pensieri. Per le femmine un po’ meno, e spesso a fare da schermo ci sono i trucchi, i vestiti, le cotte a senso unico. Sulla scia di “Inside Out”, la goffaggine e i turbamenti sono incarnati dai Mostri degli Ormoni, creature poco leggiadre che sussurrano sconcezze ogni momento. Ma non lo fanno per cattiveria, è nella loro natura (si infuriano solo quando vengono scambiati per la Fatina della Pubertà).
Ogni personaggio è assillato dal suo Mostro degli Ormoni, anche le ragazze (lì le sconcezze sono inframmezzate da “fagliela pagare se lo stronzo non ti guarda”, e l’aspetto è un po’ meno repellente). Ne ha uno anche il coach – adulto inaffidabile e analfabeta che ricorda il cuoco di “South Park” – prodigo di consigli su questioni di sesso. Chi ancora non ce l’ha, smania per averlo, e intanto da dodicenne sbircia il pisello dell’amico tredicenne, ricavandone incubi orrendi (che dire di una partita di baseball giocata solo da giganteschi falli saltellanti, compreso l’arbitro con il fischietto?).
I maschi vomitano alla parola “mestruazioni”. Pieno “South Park”, ancora (il collettivo Brutus Pink dietro la serie – i nomi sono Nick Kroll, Andrew Goldberg, Mark Levin e Jennifer Blackett – ruba e ricicla volentieri). “Non mi fido di una cosa che sanguina quattro giorni e poi non muore”, era la mai dimenticata battuta del film diretto da Trey Parker, con il sottotitolo “Più grosso, più lungo, & tutto intero”. “Big Mouth” rilancia con un tampax che intona la sua canzoncina con balletto, nello scuolabus. Nella seconda stagione, per propiziare il passaggio verso l’età adulta, ha il suo bel daffare lo Spirito della Vergogna.