The Hunt

"The Hunt" colpito dalla critica preventiva di Trump

Mariarosa Mancuso

La Universal ha rimandato la data di uscita dell'ultimo film di Zobel da agosto a forse mai

Ognuno di noi ha due mestieri, diceva François Truffaut: il proprio e quello di critico cinematografico. Donald Trump non fa eccezione, specializzato in critica preventiva (la versione italiana suona: “Io, ovviamente, non ho visto il film…”, premessa che non scoraggia pensosi commenti e prese di posizione). L’ultima vittima è “The Hunt” di Craig Zobel, strapazzato da Fox News prima dell’affondo di Mr President. In sintesi: “Hollywood è razzista, produce film che infiammano gli animi e generano caos”. La Universal che distribuisce il film – prodotto da Blumhouse, come “Get Out - Scappa” di Jordan Peele – ha rimandato la data di uscita da agosto a forse mai. Le sparatorie di Dayton ed El Paso avevano suggerito un primo ripensamento: il pop, sotto forma di film, fumetti, videogiochi, è un capro espiatorio sempre a portata di mano.

 

“The Hunt” racconta una storia horror già sfruttata in un film del 1932, “The Most Dangerous Game”, prodotto da Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, la coppia che aveva diretto “King Kong”. Viene da un racconto di Richard Connell del 1924: anche a prenderla larga, non potevano avere in mente Trump e i suoi seguaci. “Pericolosa partita” – così il titolo italiano – racconta una coppia che fa naufragio con lo yacht, approda su un’isola del Pacifico, viene accolta dal conte Zaroff che lì dimora (e si presenta come un cosacco sfuggito alla Rivoluzione d’ottobre). Troppo tardi per loro, scoprono che saranno le prede di una caccia all’uomo.

 

Si sussurra di anteprime dall’esito incerto, chi dice “‘The Hunt’ al pubblico è piaciuto”, chi dice “non è piaciuto affatto”. Dal trailer e dai pettegolezzi si ricava che la versione di Craig Zobel racconta americani rapiti e portati in Europa. Lì saranno cacciati da altri americani, per sport. Americani ricchi, il divertimento si addice all’élite annoiata senza problemi di mutuo.

 

Il regista respinge le accuse, voleva solo girare un thriller che satireggiasse il vizio di dividerci in squadre, l’un contro l’altro armate (non servono i fucili, bastano i tweet). Gli crediamo sulla parola, e moriamo di curiosità: fa da garanzia il suo primo film, “Compliance”, visto nel 2012 al Festival di Locarno, che allora sceglieva titoli interessanti (quest’anno hanno premiato come migliore attore un indigeno dell’Amazzonia con una collana di denti). Era la storia, realmente accaduta in un McDonald’s del New Hampshire, di un maniaco che si finge poliziotto. Telefona per accusare una cameriera di furto. Siccome ha tra le mani un caso più urgente – così sostiene – prega gentilmente gli altri impiegati di provvedere. Significa: chiudere la sventurata (del tutto innocente) in una stanza, perquisirla, spogliarla, palpeggiarla, esigere sesso. Tutti eseguono senza battere ciglio, con un certo godimento nella sorveglianza e nella punizione.