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Venezia 2019

A Venezia la leggenda del “Porno subito” non ammette cedimenti

Mariarosa Mancuso

Dal primo nudo integrale del 1933 alla Marini in groppa alla mortadella

Che effetto fa il film scandalo del 1933 rivisto nel 2019? Bisogna dimenticare Luciano Bianciardi, che dedica a “Estasi” di Gustav Machatý pagine gustosissime del “Lavoro culturale” (pensatele come un chiodo che sigilla la bara dei cineclub). Nel 1957 di Bianciardi, e non solo nel grossetano, dire “nudo integrale” era un irresistibile richiamo sia per il comune spettatore, sia per lo spettatore che aveva occhi solo per l’Arte Cinematografica – la dicitura sta nella ragione sociale della Mostra che oggi si inaugura al Lido (chiude il 7 settembre con la consegna dei Leoni). Anacronistica, da parte di un festival che riconosce l’esistenza di Netflix e della realtà virtuale, ma le vecchie insegne conservano un certo fascino.

 

È ampiamente dimostrato che il richiamo all’Arte tiene lontana la censura. O almeno ci prova. (Ultimo esempio pervenuto: i film della regista Catherine Breillat, presidente della giuria al Festival di Locarno, con Rocco Siffredi). “Estasi” – ieri in pre-apertura della Mostra – non ne ha più bisogno, è nella storia del cinema. Nudo integrale è un bagno nel laghetto, una paio di tette e una corsa nei prati, in campo sufficientemente lungo da non vedere proprio tutto. La ragazza che a Hollywood sarà Hedy Lamarr nel film si chiama Eva. Maritata malissimo, invano aspetta a letto il consorte più grande di lei (l’attrice aveva 19 anni, la “giovane sposa delusa” potrebbe averne meno).

 

Osserva la pioggia che cade sui vetri, ed è molto triste. Peggio che mai quando arriva primavera, gli uccelli cinguettano e le api impollinano i fiori. Decide di fare una passeggiata a cavallo, e qui succede il fattaccio: Eva si spoglia, si tuffa, fa qualche bracciata e vede con orrore il cavallo allontanarsi. Con i suoi vestiti appoggiati sulla groppa. Il famigerato codice Hays – quello che nei film americani imponeva solo letti gemelli, vedere un matrimoniale poteva suggerire strane idee – esisteva da qualche anno, ma i registi cecoslovacchi non ne sapevano ovviamente nulla. Machatý, per soprammercato, non si lascia sfuggire un’allusione che sia una.

 

Il cavallo galoppa via – lasciando Eva nuda come nel Paradiso Terrestre – per amoreggiare con una cavalla. Un bel giovanotto nota lo strano carico, e riporta alla bagnante una elegantissima tuta con bottoni, due bretelle intrecciate sulla schiena nuda. Sta per succedere quel che deve succedere, quando lei si fa male a un piedino – inquadrato e coccolato che neanche un feticista. Guarito con abile mossa da chiropratico, anche (lui è un ingegnere dalle mille virtù, pure belloccio). Lei torna a casa dove il marito sempre la trascura, suona nervosamente il piano, guarda con aria languida sculture di cavalli e figurette nude. Finalmente succede quel che doveva succedere già un paio di scene prima: via la collana di perle, mani abbandonate ai bordi del letto, sigaretta (qui niente nudità, i maschi al massimo avevano il calzoncino corto, però con calza al ginocchio).

 

Ancora non l’abbiamo individuato – uno dei grandi piaceri ai festival è vedere film di cui non sappiamo già ogni cosa – ma anche Venezia 76 avrà il suo scandalo. Certo, neanche loro sono più quelli di una volta. Agli spettatori del 1996 toccò Valeria Marini a cavalcioni di una gigantesca mortadella, in “Bambola” di Bigas Luna. Agli spettatori del 2013 toccò “Moebius” del coreano Kim Ki-duk, una trama che non ci si crede: moglie tradita imita Lorena Bobbit, il consorte si sfrega pietre sulle caviglie a scopo orgasmico. Il direttore Alberto Barbera ha un talentaccio, in materia. Nel suo primo giro alla Mostra, dal 1998 al 2002, turbò gli spettatori con un altro Kim Ki-duk, “L’isola” (oggi strillerebbero gli animalisti, c’era un sushi di pesce vivo). Stufo di giustificare l’artisticità delle scelte, scrisse sulla porta dell’ufficio: “Porno subito”. Questo dice la leggenda. E noi stampiamo la leggenda.

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