Non c'è il putto di vodka nel documentario di Chiara Ferragni. Peccato
Alla Mostra sono arrivati i film che temevamo
Da zero a 30 milioni di fatturato in dieci anni. Nella lista dei 30 imprenditori under 30 di Forbes (quando rientrava nella categoria, classe 1987). Oltre 17 milioni di follower su Instagram. Chiara Ferragni è una ragazza da studiare. Lo fanno a Harvard, mentre alla proiezione stampa del documentario “Chiara Ferragni-Unposted” era tutto un guardarsi e spiarsi, neanche fossimo andati a vedere un porno: “Se c’è quell’altro critico allora sto tranquillo, è cinema e non voyeurismo”.
L’imprenditrice-influencer-testimonial (ma soprattutto l’artista dei social, mica è facile sedersi in prima fila alle sfilate se arrivi da Cremona e non ti chiami Paris Hilton) ha scelto come regista Elisa Amoruso, documentarista e sceneggiatrice finora apprezzata dai cinefili. Da qui l’invito alla Mostra di Venezia – prima dello sbarco al cinema, dal 17 al 19 settembre (e lì capiremo quanti follower compreranno il biglietto).
Puoi togliere una ragazza dalla provincia, ma non puoi togliere la provincia da una ragazza. Vediamo il chewing gum lanciato in bocca, per ciccare senza rovinare le labbra truccate. La macchina fotografica per i primi scatti era stata presa con i punti all’Esselunga (la festa di compleanno al supermarket, criticata sui social per il cibo sprecato, va dunque considerato un quadretto “per grazia ricevuta”). Alle prove del matrimonio discutono se far suonare “Amore che vieni, amore che vai” (“Ma amore, è una canzone triste…”) oppure “Buonanotte fiorellino”. Nessuna traccia del putto di ghiaccio che al rinfresco pisciava vodka: da qui la curiosità di sapere se i follower diventeranno spettatori, già ne sanno più della regista.
“Un incrocio tra Marina Abramovic e il Grande Fratello”, dice un intervistato. Bello sarebbe, ma dopo la celebrazione internazionale arriva la melassa: “Sono la brava ragazza di sempre, devo molto alla mamma che fin da piccola mi faceva sentire speciale, la famiglia e gli affetti sono la cosa più importante”. Riassumiamo: una fanciulla conquista il mondo quasi da sola (dell’ex fidanzato e socio in affari non vuol sentir parlare, sentiamo odore di alto tradimento) e poi quel che davvero sogna è l’abito da sposa.
Potenza della regina di Instagram: il Corriere della Sera ha anticipato la recensione bruciando la concorrenza (esiste un patto: vediamo i film tutti insieme un giorno prima per scriverne tutti insieme dopo la proiezione ufficiale il giorno dopo). Bisognava pur tirarsi un po’ su dopo l’artistico – secondo gli adepti al culto – disastro del “Martin Eden” diretto da Pietro Marcello. E da una Mostra di Venezia che era cominciata molto bene, prima degli inciampi.
Sono arrivati i film che temevamo, diretti dai soliti noti che non si riescono a cacciare neppure dal Lido, mica solo da Cannes. Per esempio “The Guest of Honor” di Atom Egoyan: nelle uniche scene divertenti un ispettore sanitario fa il suo lavoro nelle cucine dei ristoranti, a contorno di un inutile pasticcio sul tema della colpa. Speravamo in un altro bel film di Olivier Assayas, dopo il perfido e contemporaneo “Non-Fiction” visto l’anno scorso: è arrivato il melodramma filo-castrista “Wasp Network”. Abbiamo sempre goduto i teatrini dell’assurdo dello svedese Roy Anderson, ma “About Endlessness” non lo consigliamo a nessuno.
Deludono anche gli sconosciuti – mentre è stata una gran bella sorpresa, di ritmo e di recitazione, Mario Martone che adatta Eduardo De Filippo, “Il sindaco del rione Sanità”. “The Painted Bird” (del regista ceco Václav Marhoul) ha concentrato in un solo film tutte le torture che di solito i festivalieri subiscono in dieci giorni. Bulbi oculari scavati con il cucchiaio, stupro con bottiglia rotta, torture di ogni ordine e grado ai danni di un ragazzino ebreo, nella Polonia del 1939 tra nazisti e russi. Fa da pretesto e da alibi il romanzo “L’uccello dipinto”, scritto (e forse plagiato) dal polacco Jerzy Kosiński. Il critico del Guardian racconta una decina di spettatori in fuga – tra i moltissimi – rimasti bloccati da una porta chiusa a chiave. Per dire il clima che regnava in sala.