Altro che Hollywood
Com'è grande il cinema italiano inventato dagli scrittori in Sicilia
La diffusione del cinematografo e l’iniziale sospetto dei grandi autori, che poi ne presero il meglio. Dalla scrittura alla pellicola fino alla televisione, così l’isola ha cambiato il modo di raccontarci
In principio furono Giovanni Verga e Luigi Pirandello, con indispettita sfiducia, sospettosi anatemi, superiore pregiudizio: “Castigo di Dio” o “romanzo d’appendice per analfabeti” era il cinema per l’autore dei Malavoglia, mentre con i Quaderni di Serafino Gubbio operatore (pubblicato per la prima volta nel 1916 con il titolo Si gira…) il futuro premio Nobel dava forma ai suoi malumori e stilava il manifesto romanzesco della diffidenza nei confronti di un’arte che minacciava di spodestare, far arretrare la nobiltà della scrittura riducendo lo sguardo umano a mercificazione e meccanizzazione. E’ noto che la reazione di Verga e Pirandello all’avvento e alla diffusione del cinematografo fu ambivalente e conflittuale, e per capirlo, come sempre quando si tratta di guardare le ragioni profonde di ciò che ci accade intorno, dobbiamo seguire due movimenti: il denaro e l’amore; per tirar fuori il loro reale pensiero sul cinema, oltre i tuoni ideologici e le barricate, dobbiamo cercare sincerità nelle lettere alle donne.
La reazione di Verga e Pirandello all’avvento e alla diffusione del cinematografo fu ambivalente e conflittuale. “San Cinematografo”: così nel 1913 Luigi Capuana definì la settima arte. La preghiera? Salvare i letterati dalla miseria
Il 27 maggio 1930 Pirandello scrive alla sua musa, l’attrice Marta Abba, adorata di un’adorazione sconfinata e platonica, che “l’avvenire dell’arte drammatica e anche degli scrittori di teatro è adesso là. Bisogna orientarsi verso una nuova espressione d’arte: il film parlato. Ero contrario, mi sono ricreduto”. Già vent’anni prima, quando una casa di produzione francese aveva proposto a Verga di trarre un film da Cavalleria rusticana, lo scrittore settantenne aveva accettato a patto di contribuire alla sceneggiatura ma poi, insoddisfatto del risultato, aveva detto a Dina Castellazzi di Sordevolo, mettendole a disposizione i diritti cinematografici delle sue opere, che da quel momento avrebbe preferito non intervenire o mantenere segreti gli interventi sulle nuove pellicole. La questione era sia economica che amorosa: la contessa era la sua amante e lui l’avrebbe mantenuta con quei proventi, come ha scoperto nel 1999 Sarah Zappulla Muscarà portando alla luce un aspetto inedito del loro carteggio. Infine, nel 1916, cominciò la collaborazione dello scrittore con la Silentium Film, che durò quattro anni; Giovanni Verga era nato nel 1840 e pensarlo alle prese con il cinema è straniante, quasi ucronico, tanto più che sulla sua pelle si compiva la trasformazione della trasformazione: il mostro apparso minacciando di distruggere la vita degli scrittori, anziché portar loro via il mestiere, si rivelava sconvenientemente un’occasione sentimentale e lavorativa. Nel 1913 Luigi Capuana definì la settima arte “san Cinematografo” e rivolse alla nuova divinità la preghiera di salvare i letterati dalla miseria, mentre l’anno dopo un Pirandello destabilizzato e senza pudori implorava Nino Martoglio (per essere sinceri fra loro, gli uomini hanno bisogno di invidiarsi fino a scoppiare): “Carissimo Nino… Verga, Bracco, Salvatore di Giacomo… a gonfie vele! Non potrei fare qualche cosa anche io? Avrei tanti e tanti argomenti di qualunque specie, tu lo sai! E avrei in questo momento tanto tanto bisogno di guadagnare: tu lo sai! Sono disperato per 500 lire che mi urgono per i bisogni immediati e non so come e dove trovare”.
Il tempo era passato in fretta dal 19 settembre 1896 (data della prima proiezione pubblica di una pellicola in Sicilia, a Palermo, in via Maqueda), passando per l’arrivo di due modelli di kinetoscopio Edison a Catania (6 dicembre 1896) e delle macchine dei fratelli Lumière l’anno successivo (a Messina il 15 febbraio, a Palermo il 17 aprile, a Catania dieci mesi dopo accompagnate dal giubilo di Martoglio che invitava i cittadini ad ammirare “l’ultimo grandioso ritrovato della scienza”). In quello stesso triennio si realizzavano i primi documentari sull’isola, a Catania Passeggio alla Villa Bellini e Ricreazione di bambini alla Villa Bellini, a Messina Lo sbarco dei passeggeri dal ferryboat e Il convegno dei messinesi allo chalet. Era il tempo in cui la semplice riproduzione della quotidianità bastava a produrre meraviglia, mentre già dieci anni dopo quelle visioni erano invecchiate, diventate noia, bisognava cercare il tragico e il sublime nelle pellicole sulle eruzioni dell’Etna o attraverso le macerie del terremoto del 1908. Poco dopo, cominciava la breve età d’oro della cinematografia catanese: nel 1913 il cavalier Alfredo Alonzo, ricco e influente imprenditore in diversi settori dallo zolfo agli alimentari, investì duecentomila lire, una somma titanica, per portare nella sua città il meglio del cinema italiano. Nasceva così la Etna Film, con monumentale sede nel quartiere di Cibali, e a seguire Jonio Film, Katana Film, Sicula Film, Morgana Film (quest’ultima con sede a Roma, ma con la direzione artistica di Martoglio). Esauritasi presto, la stagione di sfavillante ascesa di Catania come città del cinema (veniva definita “la Hollywood etnea”) lasciò una traccia profonda, uno spazio ampio di dibattito per la nuova turbolenza che scompaginava, ancora una volta, le giovani radici della settima arte, ovvero il parlato al posto del muto: “Un orrore!” scriveva Pirandello al figlio Stefano nel 1929, l’anno prima di cambiare idea compiacendo Marta Abba, “Ma non ostante questo, farò un film-parlante contro i films-parlanti”. Più prudente verso la novità, un giovane Vitaliano Brancati sul Giornale dell’isola: “Aspettiamo che ci venga incontro in veste di cose reali, visibili, ascoltabili”. Brancati comincerà a lavorare come sceneggiatore molto più tardi, nel 1942, per soldi, detestando il mestiere che con la sua dimensione collaborativa e comunitaria toglieva spazio e ariosità all’ispirazione dell’individuo solitario: “Io scrivo, per esempio, una pagina ogni mattina per sentire se il mio cervello, dopo l’odioso lavoro di sceneggiatura del pomeriggio e della sera, durante il quale si è mescolato ad altri cervelli in un mucchio di materia grigia tanto grosso e gonfio quanto inerte e stupido, viva ancora di vita propria”. Nel 1948, insieme a Luigi Zampa, Brancati inaugurò una trilogia satirica con il film Anni difficili, che prese legnate da destra e da sinistra: la storia dell’impiegato comunale siciliano costretto a iscriversi al PNF per conservare il posto di lavoro e poi epurato da un sindaco ex fascista riciclatosi come antifascista scontentò l’una e l’altra parte, non fu capito nella sua anima sincera e grottesca, fu accusato di qualunquismo e di mancata presa di posizione fino a costringere Italo Calvino a intervenire in difesa. Il rapporto tra il cinema e il fascismo è complesso, per i siciliani in modo precipuo, e in quelle critiche emerge una necessità divisiva, partigiana prima che artistica, e risarcitoria rispetto a com’erano andate le cose durante il regime.
Alfredo Alonzo, ricco e influente imprenditore in diversi settori dallo zolfo agli alimentari, investì 200 mila lire e nacque l’Etna Film. Il passaggio dal cinema muto a quello parlato, definito da Pirandello “un orrore!”. Però l’anno dopo cambiò idea
Finché erano circolate pellicole mute, la censura era stata sporadica, legata soprattutto a iniziative private di denuncia di elementi di chiara opposizione o clamorosa immoralità. Ma quando, sullo schermo, le persone avevano cominciato a parlare, la possibilità di propaganda si era fatta enorme, tangibile, ed era cominciata un’epoca di sovvenzioni statali finalizzate a un’arte nazionale che diventasse orgoglio nazionalista (“Il cinema è l’arma più forte!”, tuonava Mussolini copiando Lenin), con il risultato di produrre soprattutto film di vuota rappresentazione di una società imbellettata. A lamentarsi dello stato delle cose, e a farne le spese, sarà un altro scrittore catanese, Ercole Patti, critico cinematografico e sceneggiatore, all’epoca, dei film di Mario Camerini: il primo ottobre 1944 Patti fu arrestato e portato a Regina Coeli e poi a San Gregorio al Celio. I motivi? Probabilmente legati all’aver infastidito i fratelli Pavolini, Alessandro e Corrado: al primo, ministro della cultura, aveva criticato la diva Doris Duranti, da lui protetta, e al secondo i brutti romanzi. Qualche mese prima dell’arresto, aveva scritto: “Il fascismo nonostante la sua ostinazione a volersi interessare di Arte non è mai riuscito a fascistizzare un solo artista degno di questo nome. I veri scrittori, i veri poeti, i veri pittori sono rimasti naturalmente e costituzionalmente al di fuori”. Ercole Patti sarà liberato il 25 gennaio 1944 e nell’agosto dello stesso anno fonderà Star – settimanale di cinema e altri spettacoli. Da allora, scriverà sempre di cinema, come recensore non indulgente e come inviato, con venature polemiche, dai vari festival, tra cui il suo preferito, quello di Taormina, non solo per Star ma anche per il Tempo, l’Europeo, il Popolo di Roma. In lui la profonda conoscenza della settima arte, dei suoi meccanismi, delle sue galassie coesiste con l’originaria sfiducia verso un’espressività ritenuta a ogni livello inferiore alla letteratura: “Un film dopo venticinque anni ha soltanto un interesse documentario”, scrive stizzito a proposito della mitizzazione della scena della carrozzina nella Corazzata Potëmkin, che a suo dire “non significa più nulla”.
A partire dagli anni Cinquanta, il matrimonio siciliano tra cinema e scrittura continua ad articolarsi, assorbendo i cambiamenti di costume e di mentalità e trasformandosi in un palese andirivieni fra l’isola e la capitale. Nel 1955 Goliarda Sapienza, nata a Catania e trapiantata a Roma, attrice e scrittrice, collabora per la prima volta a una sceneggiatura: il film è Gli sbandati e, oltre a Citto Maselli, compagno di Goliarda e regista, sono accreditati solo nomi maschili; così sarà per La donna del giorno (1956), I delfini (1960) e altri, ma le carte e la stessa ammissione di Maselli (venuta dopo il successo e la riscoperta di lei) dicono con certezza la misura fondamentale del suo contributo. Come spesso capitava e ancora capita alle donne, Sapienza si muoveva nell’ombra, con illuminazioni geniali e senza riconoscimenti ufficiali, con una grazia e un’ispirazione che venivano dall’infanzia (a proposito di fascismo: la madre, antifascista, non l’aveva mandata a scuola per evitare che si contaminasse con le idee del regime). “Lei era lì, accanto a me, sempre, a dare consigli richiesti e non”, ricorda Maselli a proposito dei set, almeno finché la sua presenza non infastidì altri operatori, maschi, e Goliarda fu costretta a lavorare a distanza.
Oltre alle possibilità e alle dinamiche di lavoro legate ai professionisti della scrittura, raccontare l’isola e il grande schermo significa anche ricostruire la storia della sua rappresentazione: nel miliare La Sicilia e il cinema, nella raccolta La corda pazza, Leonardo Sciascia stabilisce un anno zero e scrive che “la Sicilia entra nel cinema con Giovanni Grasso protagonista del film Sperduti nel buio: gente che gode e gente che soffre. Un film che possiamo dire siciliano, oltre che per l’interpretazione di Giovanni Grasso e Virginia Balistrieri, per la regia di Nino Martoglio”. E, ancora, propone una sintesi perfetta: “Vittorini, Brancati e Quasimodo offrirono, più o meno direttamente, i tre diversi temi siciliani al cinema. La Sicilia come mondo offeso; la Sicilia come teatro della commedia erotica; la Sicilia come luogo di bellezza e verità. Quest’ultimo tema è stato, per così dire, il più sfortunato: appunto perché è il più difficile; il più arduo da rendere, da articolare, da motivare al di fuori della condizione e grazia della poesia”. Il testo è del 1963 e sta per uscire il film che segnerà una svolta ulteriore, ovvero Il Gattopardo; Sciascia non l’ha ancora visto ma esprime le sue riserve preventive, proiettandovi il giudizio negativo sulla Terra trema e una presunta discrasia fra il romanzo di Lampedusa e il temperamento di Visconti, oltre a una generale insofferenza per i film tratti dai libri. Entusiasta sarà invece Ercole Patti: dopo la visione scriverà sul Tempo che, nonostante i difetti del libro (“un insistito compiacimento” di uno scrittore molto dotato ma “ancora incerto nel gusto e perfino con qualche punta di nobiliare dilettantismo”) e dello stesso film (la lunghezza: “Non esistono film che non possano essere compresi nelle due ore e mezza, al massimo, di proiezione”), “Il Gattopardo è il più bel film che abbia fatto finora Visconti, la sua opera più piena, ispirata, misurata e artisticamente valida” e “questo di Lancaster è un principe Salina più emozionante e commovente di quello stesso del romanzo”.
Il rapporto tra il cinema e il fascismo è complesso, soprattutto per i siciliani. Emerge una necessità divisiva e risarcitoria. Nel 1955 Goliarda Sapienza collabora per la prima volta a una sceneggiatura: il film è “Gli sbandati” di Citto Maselli
Se Il Gattopardo è un caso eclatante di pari fortuna di libro e film, sono tante le trasposizioni dai libri di tutti gli scrittori fin qui menzionati e di molti altri. A volte gli autori hanno contribuito a quei prodotti, altre si sono tirati fuori; a volte il risultato è un corpo estraneo, altre uno specchio fin troppo fedele, quasi una versione documentaristica del romanzo stesso. Più interessante di questa strada non originale rispetto al resto d’Italia, è seguire, fra romanticherie e ricostruzioni, l’influenza del grande schermo nella formazione giovanile degli intellettuali isolani, che culmina in un altro articolo di Sciascia, a proposito di Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, in cui le emozioni suscitate dal film sono il pretesto per aprire una scatola di ricordi e atmosfere: “Il film di Tornatore, pur riferendosi ad anni più al di qua, ad anni del parlato, mi ha toccato e commosso nella memoria di anni più lontani; quelli del mio cinema, del mio vero cinema: il cinema che direi silenzioso piuttosto che muto. Me ne sono nutrito fin da quando, già in quasi tutto il mondo, imperava il parlato: per il vantaggio, direi, di stare in un paese dove tutto arrivava con grande ritardo (nei miei ricordi è l’arrivo della prima automobile, della prima radio, del primo taglio – alla maschietta – dei capelli femminili, delle prime ascelle femminili nude e rasate)”.
La cinefilia dello scrittore ibleo Bufalino è dichiarata, è pervasiva e fondante. Non c’è traccia degli antichi anatemi siciliani. Ercole Patti: “Il Gattopardo è il più bel film che abbia fatto finora Visconti, la sua opera più piena, ispirata e artisticamente valida”
Si opera, nella seconda metà del Novecento, una riscrittura al rovescio del rapporto fra immagini e scrittura, grazie alla memoria, che non a caso funziona come una moviola. Gesualdo Bufalino è forse il primo a capovolgere l’assunto secondo il quale la letteratura viene prima del cinema, anche dal punto di vista cronologico: gli autori siciliani hanno trascorso la giovinezza in cineclub di provincia e solo dopo si sono messi a scrivere. A proposito delle esperienze di spettatore di Sciascia, al quale lo legava – scoprirono entrambi in tarda età – la stessa abitudine giovanile di annotare i film su un quadernetto accompagnati da una scheda, Bufalino dice: “Ora io non voglio dire che quelle esperienze di spettatore abbiano avuto un peso esclusivo sulla sua formazione culturale. Ci furono i libri, questo va da sé. E tuttavia esse servirono a sbloccare, a sprigionare il ragazzo dalla triplice clausura in cui viveva: della dittatura, dell’isola, della provincia. Furono, quei film, la lima nella pagnotta che permise a lui e a tanti altri la fuga dalla quarantena italiana e l’ingresso nell’Europa”. Il cinema come scoperta geografica e culturale del mondo, dell’alterità: “Lo stesso Vittorini, probabilmente, non avrebbe scoperto nei libri l’America se non l’avesse amata tutte le sere da un sedile di loggione”, sostiene ancora Bufalino, che su di sé si permette di essere ancora più esplicito: “Film come Carnet de bal, Alba tragica, I prigionieri del sogno – Les enfants du Paradis, amatissimo, venne dopo – per me sono stati importanti tanto quanto la scoperta di Baudelaire o di Dostoevskij”. La cinefilia dello scrittore ibleo è dichiarata, pervasiva, fondante, non c’è traccia degli antichi anatemi siciliani, di quella diffidenza conflittuale e a tratti rabbiosa delle origini. La frequenza con cui il giovane Gesualdo va al cinema subisce un costante aumento: due film nel dicembre 1934, una media di cinque film al mese l’anno successivo, e di venti dal 1936 in poi. L’unico ostacolo, aggirabile con qualche espediente, è costituito dai soldi: “Costava una lira, nel 1935, un biglietto di loggione nel cinema Vona, a Comiso, dove io consumavo quasi ogni sera i miei primi tremanti commerci amorosi. Una lira, cioè venti soldi, che non era facile mettere insieme. Tuttavia, a costo di chiedere un prestito a un amico più squattrinato o di sfilare la somma con mani notturne dal borsellino paterno, finivo sempre col racimolarla e porgerla nel palmo aperto – obolo e sesamo di un’Ade dalle bellissime larve – alle unghie non sempre nette dell’operatore cassiere. Me ne venivano in cambio estasi di cui non mi sono scordato e che ora, inopinatamente, il miracolo della televisione mi consente di rinnovare. Sicché non cercate nessuno che sia più fedele di me all’appuntamento casalingo, qualunque sia l’orario, con un film d’altri tempi, nell’ineguagliabile bianco e nero, specie quando si tratti d’una rilettura e del film si conservi traccia nell’inchiostro sbiadito di un mio Indice-diario, dove a futura memoria ero solito registrare, completi di cast, data e voto, gli spettacoli visti”. Da queste parole dovremmo trasbordare verso un’altra metamorfosi, dopo quella dal teatro al cinema, ovvero dal cinema alla televisione, dal grande al piccolo schermo, e significherebbe riflettere sul rapporto tra la Sicilia e le serie, con il Montalbano di Andrea Camilleri in testa, e sulla ripercussione da lì ricascata, con l’indotto turistico delle visite ai luoghi del commissario e le immagini a inventare un’isola che non c’è fino a crearla per davvero. Ma questa è un’altra storia, o meglio la tappa (quasi) finale di un cammino cominciato riprendendo un gruppo di bambini in una villa di Catania o un convegno a Messina – un percorso di stupore in cui, nel rapporto fra immagini e testo, tutto si rovescia di continuo: le certezze diventano dubbi, le minacce occasioni, i mostri migliori amici, mentre l’isola, come sua consuetudine, rimane enigmatica al di fuori del teatrino, in eterna, sublime, aristocratica indifferenza al racconto che di lei viene fatto.