Martin Scorsese alla Festa del cinema di Roma (foto LaPresse)

Il segreto della Festa del cinema di Roma, tra Bill Murray e i chirurghi

Marianna Rizzini

Giù il sipario. Parla il direttore Antonio Monda

Roma. Finita la Festa (del cinema) resta – in mezzo ai numeri che parlano di un 18 per cento in più di incassi rispetto al 2018 – la certezza che il successo è arrivato in gran parte per i motivi per cui la Festa stessa, e il suo direttore artistico Antonio Monda, sono stati a volte in passato criticati: lo sbilanciamento sull’America, lo sguardo a un cinema che è anche intrattenimento, il rapporto privilegiato con il pubblico di non addetti. Anzi: con i pubblici di non addetti. Per l’edizione appena chiusa: bambini (per i film di “Alice nella città”), giovani, non più giovani, curiosi non cinephile, nostalgici di John Travolta – protagonista di un “incontro ravvicinato” molto pop – e persino sacerdoti, se è vero che a un certo punto, sul red carpet, sono comparsi, per lo stupore dei fotografi, attori e attrici vestiti da coevi di Gesù per la proiezione del film “Videocatechismo” di Gjon Kolndrekaj.

 

E dunque la Festa si chiude, ma Monda dice di essere “già quasi praticamente all’opera” per l’edizione successiva, complici gli altri selezionatori e la consuetudine con un’America non più vituperata. Anzi spiegata: c’era sì, a Roma, Martin Scorsese con il suo applauditissimo e lunghissimo “The Irishman”, visto anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella (ma Scorsese, racconta Monda, è stato anche da Papa Francesco, per improvvisa visita non preparata, dove il regista si è presentato con barba sfatta e figlie in scarpe da ginnastica – e però i due hanno parlato a lungo delle “Memorie del sottosuolo” di Dostoevskij). Ma c’era anche, sul red carpet, l’America dell’“attacco come miglior difesa” del documentario “Where’s my Roy Cohn?” di Matt Tyrnauer. La domanda è quella fatta da Donald Trump quando è esploso il caso delle interferenze russe nelle elezioni del 2016; il riferimento è a Roy Cohn, ex consigliere di politici e imprenditori (tra cui i Trump stessi), avvocato spregiudicato negli anni Settanta e Ottanta poi morto di Aids.

 

E però la Festa resta in qualche modo misteriosa come la sua icona Greta Garbo, nel senso che è impossibile dire, al momento, se la novità che l’ha portata a superarsi nei numeri rispetto allo scorso anno sia stata l’apertura al cinema d’Oriente, il recupero del passato (dalla vita di Judy Garland a quella di Bruce Chatwin) all’aria di casa tua (casa loro): non si sa infatti se, tra le cose che hanno decretato la fine delle ostilità (o tregua) con i critici puristi, tranne alcune eccezioni, ci siano stati i film di Ron Howard e di Ed Norton o l’incontro ravvicinato con un Bill Murray ritardatario (e destinatario, con Viola Davis, di un premio alla carriera). E Bill Murray significa anche gli amici di Bill Murray, prima fra tutti Frances McDormand, volata dall’America sua sponte per salutare, prima che l’attore, la persona Bill (che per lei “c’è sempre stata”) – e allora forse il segreto sta nell’aria dégagé di un festival in cui chi è sul palco sembra parlare, appunto, come sul divano dopo cena.

 

Tanto che può capitare, com’è capitato a Ethan Coen, di spiazzare pubblico e critica con la lezione sul cinema raccontato attraverso la chirurgia, cinema di genere ma anche no, ai tempi in cui imperversavano i film sugli scambi di identità. Poteva capitare allora di vedere sullo schermo uno o più medici intenti a operare con lo sguardo alla macchina da presa. Ma poteva anche capitare di vedere Paul Henreid, quello che impersona Victor Lazlo in “Casablanca”, commettere un errore fatale in un film di molti anni fa: nel ruolo di un assassino intento a rubare l’identità a un morto che ha una cicatrice sulla guancia, Henreid, per farsi da solo la cicatrice in base alla foto del morto, si rende conto quando è troppo tardi di essersi ispirato a un negativo rovesciato, e di essersi fatto dunque la cicatrice sulla guancia sbagliata. E basta che qualcuno faccia a Ethan Coen la domanda “ma voi preferite fare commedie o tragedie?”, per sentirsi rispondere “noi non facciamo differenze tra commedie e tragedie”.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.