Tutte le nostre vertigini
L’ebbrezza della debolezza mostrata da Mattia Torre nel suo ultimo film, “Figli”. Il suo continuo, unico, raccontarci chi siamo: affamati, invidiosi, eroici, litigiosi e pieni di speranza
Stamattina ho fatto la lavastoviglie, l’ho mandata, m’hanno visto tutti”, urla il marito alla moglie che gli urla, dentro l’esplosione di un secondo figlio appena nato: non fai mai niente. Ho fatto la lavastoviglie è una frase meravigliosa, perché è la frase di tutti, è minuscola e dentro questa piccolezza Mattia Torre costruisce l’immensità della debolezza degli esseri umani alle prese con le piccole e insormontabili cose di ogni giorno. Ho fatto la lavastoviglie è anche la frase che solo un uomo può pronunciare, o al massimo un figlio di sedici anni. Ho fatto la lavastoviglie, m’hanno visto tutti (tutti chi?), dice Valerio Mastandrea a Paola Cortellesi in “Figli”, appena uscito al cinema, con la regia di Giuseppe Bonito, al quale, morendo, Mattia Torre ha affidato il film che aveva scritto e che non ha fatto in tempo a girare. Un film che nasce da un monologo letto da Valerio Mastandrea, “I figli ti invecchiano”, e il monologo nasce da un racconto di Mattia Torre pubblicato qui sul Foglio. Da un’idea sua. Ti va di scrivere qualcosa sui figli? Sì. E poi basta, io ho aspettato e lui dopo pochi giorni ha scritto:
“I figli ti invecchiano anche perché quando arrivano al mondo mettono fine, con violenza inaudita, a quella stagione di aperitivi feste e possibilità che ti sembravano il senso stesso della vita. Murato in casa e reso cieco da una congiuntivite, hai un vago ricordo di ciò che eri e di ciò che avresti ancora potuto esprimere, ma non sai più dire con precisione, hai solo molto sonno”.
Dopo aver mandato il pezzo, Mattia voleva sapere se non mi sembrasse un po’ triste. Avevo riso con le lacrime, leggendo, e ho risposto no, è solo magnifico. E’ magnifico, infatti, ed è anche triste. Ovunque la scrittura riesca a entrare nel senso dell’esistenza, di quel che finisce e non può ritornare, non c’è mai soltanto brillantezza e allegria. C’è la disperazione, e il tentativo di consolarla, ma con uno sguardo feroce su chi siamo, sui nostri difetti, sulle nostre ossessioni. “Che a noi il cibo non ce lo devono toccare, che al telegiornale quando fa molto caldo l’esperto dice: cercate di evitare cibi pesanti, mangiate molta frutta e verdura e noi pensiamo: ma va a mori’ ammazzato” (da “Gola”). Mattia Torre non è stato soltanto il più brillante: geniale creatore di Boris insieme a Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico, il drammaturgo più innovativo (“4 5 6” e “Qui e ora” sono spettacoli indimenticabili, in cui il delirio ci avvicina alla conoscenza, ci sconvolge coinvolgendoci), lo scrittore che riesce a tenere insieme crudeltà e compassione, comicità e tormento, e anche questo nostro continuo rimuginare.
“Murato in casa e reso cieco da una congiuntivite, hai un vago ricordo di ciò che eri. Ma non sai più dire con precisione, hai solo molto sonno”
“Figli” è purtroppo il suo ultimo film, in cui anche le didascalie della sceneggiatura, ha raccontato Paola Cortellesi, sono curate nella scrittura, nel linguaggio, e spiegano esattamente qual è il sentimento, la temperatura di una scena (ci sono molti modi di buttarsi dalla finestra, ad esempio, ci sono molti significati nell’idea surreale e realistica di buttarsi dalla finestra, e Paola Cortellesi in questo film si butta spesso dalla finestra, ogni volta con uno spirito diverso: con esasperazione, con tormento, con rabbia, perfino con speranza), e dentro lo sguardo di Mattia Torre sul mondo dei genitori e dei figli, e dei genitori dei genitori (i vecchi che dicono ai giovani: possiamo distruggervi tutti, siamo di più, abbiamo più tempo libero, abbiamo l’Inps), c’è questa idea di continua vertigine.
È la vertigine di vivere. La vertigine di cadere, da un momento all’altro. Perfino il desiderio di cadere. Qualcuno direbbe che è l’orlo del baratro: Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea si trovano, nel film, per due ore sull’orlo del baratro, nella comicità e nella disperazione, e molti di noi si sentono sempre, anche con un po’ di epico compiacimento, sull’orlo del baratro. Milan Kundera parla invece di “ebbrezza della debolezza”. Ci si rende conto della propria debolezza, e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa.
Come ne “La Linea Verticale”, anche adesso, in “Figli”, si ride e si piange. D’altra parte il tuo cuore non è mai stato così grande
Ci si ubriaca della propria debolezza, dentro le piccole cose di ogni giorno e dentro il secondo figlio che ha rivoluzionato tutto e ci toglie il sonno e il desiderio e la razionalità e quel che restava della giovinezza. L’ubriacatura, allora, è anche il catastrofico consegnarci alle mostruose feste di compleanno dei bambini nel girone infernale del festificio, quello con i camorristi all’ingresso, dentro qualcosa che può essere un sogno, un dormiveglia o una qualunque realtà del sabato pomeriggio, e consegnarci sentendoci eroi, martiri, caduti in nome della vertigine di fare figli. Con il piacere un po’ sadico, quindi, di stare all’inferno, sottoposti a pene infernali: c’è un amico del protagonista, l’attore Stefano Fresi, che va in giro con due bambini che lo percuotono continuamente con clave di plastica. Lui parla, spiega la fatica di vivere, e intanto i figli lo percuotono, lui dà consigli sulla paternità e intanto i figli lo percuotono, cammina e i figli lo percuotono, impazzisce e i figli lo percuotono. Nessuno se ne accorge quasi più, che i figli lo percuotono. E’ la sua condizione di padre e di essere umano. E noi ridiamo, e intanto pensiamo alle nostre continue percosse, alle nostre pene, alla nostra ebbrezza di precipitati, al nostro eroismo da feste di compleanno e cene di Carnevale, in maschera.
Quando Valerio Mastandrea, con il respiro sempre affannato, dice al suo collega di lavoro che sua moglie è incinta per la seconda volta, lui ha la soluzione: “Molla la famiglia subito. Di’ che sei pazzo. Ti fai questi due mesi in psichiatria al San Camillo e poi sei libero”. È una vertigine, è comico, surreale, disperato, delirante e possibile insieme. Mi faccio questi due mesi in psichiatria e poi sono libero. Dico che sono pazzo e sono libero. Scappo e sono libero. Mattia Torre riesce a raccontare le ebbrezze inconfessabili, e anche quelle confessabili: “Io sono una merda”. “Sì”. Ci diverte, ci respinge, ci consola di quello che siamo: vogliamo mangiare, vogliamo bere, vogliamo essere liberi di fare come ci pare, vogliamo lavorare, sentirci forti, vogliamo uscire a ubriacarci, vogliamo flirtare, tradirci. Ma appena otteniamo una qualunque di queste cose, o stiamo per ottenerla, ecco la pena a cui siamo condannati in eterno, come nell’Inferno di Dante, la pena ricorrente: vogliamo solo tornare a casa. Vogliamo solo non smettere di sentirci amati, eroici e al sicuro. Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi, che sono scappati di casa correndo, per l’esaltazione della sera libera, passano il tempo al ristorante a dormire sul tavolo e a guardare le foto dei figli sul cellulare, e a controllare che ore sono, per capire quando è accettabile tornare a casa. E a casa il pianto del figlio neonato, quello che la sorellina vorrebbe riportare in ospedale, non è il pianto qualunque di un neonato, ma è, ogni volta, cento volte a notte, mille volte al giorno, la Patetica di Beethoven. La Patetica di Beethoven è il senso della nostra grandezza, e del nostro essere sopraffatti dalla debolezza.
Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea si trovano per due ore sull’orlo del baratro, nella comicità e nella disperazione
“Ma più di tutto, conta ciò che i figli fanno alla tua mente. I figli ti fanno ripiombare, con una forza che neanche l’ipnosi, nel tuo passato più doloroso e remoto: l’odore degli alberi alle otto del mattino prima di entrare a scuola, la simmetrica precisione dell’astuccio, la catena sporca della bici, le merendine, la ghiaia, le ginocchia sbucciate. Questi ricordi, non so dire perché, sono la mazzata finale. La vita stessa, che credevi di aver incasellato in categorie discutibili ma tutto sommato valide, o comunque tue, sfugge via. Sei una piccola parte di un tutto più complesso e i gin-tonic hanno smesso di darti l’illusione dell’eternità. Sei un pezzo di un grande ingranaggio, e siccome siamo in Italia, l’ingranaggio è vecchio, arrugginito e si muove a fatica. D’altra parte, il tuo cuore non è mai stato così grande”, ha scritto Mattia Torre.
Vogliamo mangiare, uscire a ubriacarci, essere liberi. Ma appena otteniamo una di queste cose, vogliamo solo tornare a casa
Il cuore ci salva dalla partita Iva, da Equitalia, dall’odio per il vicino di casa in pensione, dalle mestruazioni, dalla fissazione per la seconda casa al mare o in montagna, dai “mandarini di giù” e “la polenta di su” che bisogna mangiare per forza anche se non abbiamo più fame, anche se abbiamo la nausea, anche se ci sentiamo male, sennò ci inseguono giù per le scale tirandoci le arance e urlandocene la provenienza: “Sono le arance di giù pezzo di merda”, il cuore ci salva forse dai vecchi che neanche muoiono più, dagli infermieri che in ospedale se ti cade il telefono di notte non te lo raccolgono, dall’attesa per la Tac senza bere perché qualcuno ci ha detto di non bere e invece potevamo benissimo bere, dal fatto che è sempre colpa di un altro, di quello che veniva prima, del dentista di prima, dell’idraulico di prima, del meccanico di prima, del governo di prima, e il cuore, che con questo slancio di speranza non è mai stato così grande, ci salverà anche dal cervello di un padre, convinto di essere illuminato e moderno, che dice: ma ho fatto la lavastoviglie, l’ho mandata, mi hanno visto tutti. Mentre l’amico preso a mazzate dai figli dice che la moglie deve fare una risonanza, sicuramente ha un problema neurologico grave, qualcosa di brutto, “perché non mi vede proprio”. C’è la possibilità del riscatto, ancora e ancora, c’è la possibilità continua di perdonarci le nostre debolezze, le nostre vertigini, l’egoismo, l’invidia perfino per il televisore del vicino di letto, in ospedale.
“Un ospedale ha le sue regole. In un ospedale, ci sono regole scritte e regole non scritte. Tra quelle non scritte, alcune sono più singolari di altre. In una stanza d’ospedale, il televisore del vicino di letto è sempre più bello”. I vicini di letto stanno guardando entrambi un documentario sui macachi, sullo stesso canale, ma ognuno lo guarda sul televisore dell’altro, con un sorriso di conquista. Mattia Torre ha raccontato anche la malattia, la vita di un malato di cancro dentro un ospedale pubblico, e quello che doveva essere un monologo teatrale è diventato una serie tivù, “La linea verticale”. Era la sua malattia, la sua storia, la grande vittoria del viaggio fino al bar dell’ospedale, a ordinare cinque caffè per gli infermieri e tornare indietro, faticosamente ma con le proprie forze, con il vassoietto in mano. Ci ha fatto ridere e piangere, e provare il desiderio di abbracciare l’intera umanità, nevrotica, fissata, litigiosa, avida, generosa e affamata di carbonara e assetata di Chablis. Anche adesso, in “Figli”, si ride e si piange. D’altra parte il tuo cuore non è mai stato così grande.