Ogni film ha i suoi motivi per vincere l'Oscar, ma Joker di più
Sul fatto che vada premiata l'interpretazione strepitosa di Joaquin Phoenix e sull'appello al realismo, siamo d'accordo. Meno sulle letture ideologiche che rischiano di rovinare un film molto bello
“Joker” dovrebbe vincere l’Oscar per il miglior film, sostiene Andrew Pulver sul Guardian. Per quattro motivi. Primo: riconcilia l’Academy con il genere cinematografico che da un paio di decenni tiene in piedi la baracca hollywoodiana. Secondo: ha un attore strepitoso e magnetico come Joaquin Phoenix. Terzo: illustra la malattia mentale in maniera credibile. Quarto: prende atto che la società liberale è sull’orlo del collasso. Due motivi sono buoni, e finisce lì. Funziona l’appello al realismo: non snobbate i film che ancora portano la gente al cinema. E l’appello alla finezza del mestiere: chissà quante prove ha fatto Mr Phoenix per approntare la risata che dà i brividi, scollegata da qualsivoglia battuta (anzi, segno di estremo nervosismo). Gli altri due motivi, malattia mentale e declino del libero mercato, non solo sono temi troppo grossi per lasciarli in mano al regista di “Una notte da leoni” (più due seguiti, altrettanto alcolici e fumati). Peggio: sono due letture – ideologiche o dietrologiche, più o meno gli effetti dannosi si equivalgono – che rovinano un film molto bello, a patto di restare in superficie.
Sia consentita anche una preghiera personale: non siamo in grado di reggere, in caso di vittoria del “Joker”, i commenti che pioveranno. E nessuno che dirà: giovanotto, per quanto male ti abbiano fatto da piccolo (e un po' pure da grande), salire in metrò e uccidere i primi che hai davanti non è un gesto rivoluzionario. Neanche se i tre lavorano a Wall Street. C’è da dire che il Guardian offre a tutti pari opportunità. Un altro articolo spiega perché dovrebbe vincere “1917” di Sam Mendes (favorito anche per il New York Times), un altro ancora perché dovrebbe vincere “Piccole donne” di Greta Gerwig. Sanando la ferita, riparando alla mancata nomination della regista, e soprattutto risparmiandoci – difendiamo anche qui i nostri personali interessi – le vibrate proteste sugli Oscar sono e restano una faccenda di maschi. E via così, fino a “Le Mans 66” di James Mangold: c’è sempre un film che c’entra poco con gli Oscar, ma rimane nella rete. E c’è sempre un film che ci dovrebbe essere e non c’è: l’escluso di quest’anno è “Richard Jewell” di Clint Eastwood. Motivo (non ridete): suggerisce che una giornalista sia andata a letto con un agente dell’Fbi – piuttosto belloccio, è Jon Hamm di “Mad Men” – in cambio di uno scoop.
Dichiarato o no, c’è il timore che vinca l’outsider: “Parasite” di Bong Joon-ho, film coreano sfuggito alla gabbia del “foreign language”. Gareggia anche nella categoria miglior regista, accanto a Martin Scorsese e a Quentin Tarantino. Ha vinto il Festival di Cannes e ha riportato anche gli spettatori italiani (di tutti i più restii) al cinema. Tanto che la prossima settimana arriverà in sala un altro film del regista: “Memorie di un assassino”, anno 2003. Meglio tardi che mai.
Politicamente corretto e panettone