Evviva gli Oscar che non premiano più solo i film fatti per commuovere
“Parasite” ha vinto. La lotta tra i servi e i padroni, e la reciproca seduzione, è piaciuta ai votanti dell’Oscar quanto a noi
Non sono più gli Oscar di una volta. Per fortuna. Non sono più gli Oscar che premiano film architettati per commuovere gli spettatori, farli sentire più buoni, e certificare che il mondo è cambiato ma il cinema resta uguale. Pensate al didascalico “Green Book” di Peter Farrelly, vincitore l’anno scorso, che riproponeva “A spasso con Daisy”, vincitore nel 1990. Gli Oscar 2020 fanno trionfare un film venuto dall’oriente, “Parasite” di Bong Joon-ho, già vincitore a Cannes. Un film coreano che gli americani hanno guardato con i sottotitoli, da noi ancora considerati veleno per gli incassi (pensateci, quando vi verrà voglia di calcolare i ritardi culturali).
Era già strano che “Parasite” fosse riuscito a entrare tra i nove candidati al premio più importante, fuori dal recinto dei film non parlati in inglese. Le quattro statuette – film, film straniero (ridondante, ma prima non si poteva sapere), regia, sceneggiatura originale – confermano che la lotta tra i servi e i padroni, e la reciproca seduzione, è piaciuta ai votanti dell’Oscar quanto a noi, e agli spettatori di tutto il mondo (è ancora in sala, per i ritardatari).
Il più temibile rivale, arrivato in sordina e poi esploso nei pronostici, era “1917” del britannico Sam Mendes: lungo piano sequenza, un po’ truccato, in assoluto il meno emozionante film di guerra che sia capitato di vedere (erano pulite anche le trincee). Un esercizio di stile e un’atletica prova di regia, su una storia ridotta all’osso – due giovani soldati e un messaggio da consegnare. Bastano e avanzano i premi tecnici.
Non facevano più paura da un po’ “Joker” di Todd Phillips, nonostante il Leone d’oro a Venezia, e – lo diciamo con dolore – “C’era una volta a Hollywood” di Quentin Tarantino. Non il migliore Tarantino di sempre, ma pur sempre un film ricco e generoso, nonostante il western come genere di riferimento. La scenografia e il premio come attore non protagonista a Brad Pitt (che ha subito ringraziato Leonardo DiCaprio) sono magre consolazioni per un regista-sceneggiatore che aveva fatto la sua rivoluzione nel 1994, vincendo la Palma d’oro a Cannes con “Pulp Fiction”.
Per “Joker”, ha vinto Joaquin Phoenix. Sulla sua bravura tutti erano d’accordo, forse anche Martin Scorsese che disprezza i film sui supereroi, come se i film sulla mafia non fossero un genere. L’attore ha preso la statuetta, ha detto che non bisogna rubare il latte ai vitellini per metterlo nel caffè, ha festeggiato con un panino vegano (alle feste erano soltanto vegetariani). Per restare su “un altro mondo è possibile”, la raccomandazione di rinunciare alle paillettes – sono tossiche e inquinano i mari – non è stata presa granché sul serio.
Capitolo Netflix, ovvero la grande sconfitta. Entrata con 24 nomination porta a casa due misere statuette. A farne le spese sono stati “Storia di un matrimonio” di Noah Baumbach (che non lo meritava) e “The Irishman” di Martin Scorsese, atteso e pompatissimo. Era il tentativo da parte della piattaforma streaming di entrare nel salotto buono del cinema che piace ai festival e ai critici. Tanti soldi spesi, per un risultato meno brillante di quel che la ditta si aspettava. Parlando di cinema, non di abbonamenti o di campagna stampa, il film fallisce sul de-aging, gli effetti speciali che fanno ringiovanire gli attori. Effetto bambolotto, per rendere l’idea.
Renée Zellweger ha vinto come migliore attrice per “Judy”, tutta una sofferenza e una boccuccia a cuore. Laura Dern si è imposta come non protagonista per l’avvocatessa che beve sangue di coniuge in “Storia di un matrimonio”. L’outsider degli outsider, ovvero l’incantevole “Jo Jo Rabbit” – commedia nera e nazi di Taika Waititi, entrato a sorpresa tra i nove campioni – ha vinto per il miglior adattamento. Con molti ringraziamenti alla mamma ebrea.
Effetto nostalgia