Un contagio da cinematografo
Disinfettanti, fattori di rischio, pipistrelli pericolosi. Sapevamo già tutto, bastava guardare un disaster movie
“Lavarsi le mani dopo aver letto il copione”. L’aveva scritto Steven Soderbergh sulla sceneggiatura di “Contagion”: una piccola astuzia per attirare l’attenzione degli attori di serie A su una sceneggiatura di serie B (parliamo di generi, non di qualità). L’horror non è il genere prediletto dalle star, ma erano pochi giorni di riprese, agli ordini di un regista che non aveva sbagliato un film da “Sesso bugie e videotape”, trent’anni fa. Accettò Matt Damon, accettò Jude Law, accettò Gwyneth Paltrow, accettò Kate Winslet, accettò Marion Cotillard. “The World Goes Viral September 9” annunciava la frase di lancio, nell’anno 2011. Rinforzata da un’altra, sempre a sfondo epidemiologico: “Niente contagia più della paura”. Sapevamo già tutto, bastava stare attenti.
La frase di lancio di “Contagion” era “Niente contagia più della paura”. “E’ un film che ho già visto”, ha scritto Gwyneth Paltrow
“E’ un film che ho già visto”, scrive Gwyneth Paltrow su Instagram, a corredo di una fotografia che la ritrae in volo verso Parigi, provvista di due mascherine nere. Una per gli occhi, l’altra per la bocca. Marca Airinum, subito riconosciuta dagli esperti (costa un centinaio di dollari, le avranno finite e strafinite). Nostra Signora della Quinoa – copyright Mattia Carzaniga, vorremmo anche sapere, a bilancio, quanto ha reso la gag delle candele profumate, Vanna Marchi al confronto era una dilettante – ricorda che in “Contagion” era la paziente zero. La prima fulminata: a Hong Kong per lavoro, ritorno a Minneapolis, svenimento in cucina con bavetta alla bocca, in ospedale con la sirena.
Muore quattro giorni dopo. Il nuovo virus, velocissimo e insidioso, contagia milioni di americani (ogni malato ne produce una ventina, anche a non essere matematici fa impressione). Basta un aperitivo. Sposata con Matt Damon, in trasferta la ragazza flirtava mangiando noccioline dalla ciotola, già additata come pericolo per la salute pubblica dall’ipocondriaco Ben Stiller nella romantica commedia di John Hamburg “… E alla fine arriva Polly”. Le noccioline sul bancone pullulano di germi che preferisce evitare, calcolando (fa l’assicuratore) l’alta probabilità di infettarsi. Proprio come ha fatto Paolo Giordano sul Corriere della Sera qualche giorno fa, parlando di coronavirus. La pasticciona e promiscua Jennifer Aniston fa cambiare idea a Ben Stiller con il brivido dell’amore. Per l’influenza venuta dalla Cina ha vinto finora il brivido della paura.
Il lazzaretto galleggiante che tiene gli infetti separati dal resto del mondo è in “Cassandra Crossing” del 1976 del greco George Pan Cosmatos
Sapevamo già tutto, anche del pipistrello. “Contagion” comincia con un colpo di tosse (ormai fa più paura di un’esplosione) e finisce con la biografia del virus, ovvero “come siamo arrivati fin qui”. Palme vengono distrutte per far posto a un recinto per maiali, disturbando certi pipistrelli che trovano rifugio su un banano. Un pipistrello mangiabanane ne lascia cadere un pezzo nella porcilaia. Il maiale che mangia la banana infetta viene macellato e finisce in una cucina di Hong Kong. La carne viene maneggiata dal cuoco che senza prima lavarsi le mani accoglie la cliente Gwyneth Paltrow.
Escluse le novità, è al momento il titolo più richiesto dagli americani su iTunes (nelle sale aveva incassato 135 milioni di dollari, mica era di nicchia, e sarebbe curioso sapere cosa guardano gli italiani, per distrarsi dall’amuchina che comunque ringrazia per la popolarità conquistata). Ovviamente viene confuso con la realtà: la fotografia delle presunte fosse comuni cinesi, cadaveri nei lenzuoli buttati in una trincea, è un fotogramma del film. Speriamo serva per rincuorare i pavidi (alla fine il vaccino per il virus maiale-pipistrello si trova, e il blogger scriteriato viene messo in galera). Temiamo gli effetti contrari: il “fai da te” (già esiste una lunga lista di ricette per il disinfettante fatto in casa) e il “non ce la raccontano giusta”, lezione numero uno nel manuale del perfetto complottista. C’è chi vorrebbe anche la tuta per infilarcisi dentro (ha una sua eleganza, e vuoi mettere la prevenzione?).
“Virus fabbricato in laboratorio sfugge agli apprendisti stregoni e impesta il mondo” è il film più classico di Wolfgang Petersen
Il terrorista infetto sale su un treno diretto a Stoccolma. Morirà dopo qualche giorno, ma intanto le autorità hanno fermato e sigillato il treno con i passeggeri dentro. A Norimberga, con l’intenzione di mandare tutti in Polonia per la quarantena (oggi, crollato il muro di Berlino, chissà dove li manderebbero). Viene trovata la cura, ma i servizi segreti americani avviano il treno su un vecchio binario diretto a un campo di concentramento. Passando sul Cassandra Crossing, ponte fatiscente che non reggerà il peso del convoglio (nome ben scelto, aveva il dono della preveggenza, e la punizione di non essere creduta). Una parte dei passeggeri viene salvata da un bravo dottore e da un sopravvissuto all’Olocausto (l’attore è Lee Strasberg, fondatore dell’Actors Studio) che pur di non tornare tra i polacchi sacrifica la propria vita.
“28 giorni dopo” di Danny Boyle – la sua “Soggettiva” è in programma da ieri al 31 luglio alla Fondazione Prada, peccato abbia scelto come tema l’intelligenza artificiale e gli uomini macchina, non le epidemie – è l’anello di congiunzione tra i film di contagio ospedaliero e i vampiri. Gli scienziati mutano il virus della rabbia e lo iniettano a scimpanzé geneticamente modificati. Gli animalisti liberano gli animali e succede l’inferno. Tempo di incubazione, venti secondi. Poi cominci ad aggredire e a mordere il prossimo tuo, diffondendo la peste. Come i vampiri che mordono sul collo – le belle ragazze, di preferenza, quando erano dandy e gentiluomini, da un po’ tendono all’isteria – e non muoiono mai. Se non quando gli pianti un paletto nel cuore, cosa difficile se il contagiante è di famiglia. La scena è un classico, fin da “La notte dei morti viventi”: la bambina carina e innocente, se non l’ammazzi sarà lei a ucciderti.
28 giorni bastano per rendere Londra un deserto. Lo vediamo con gli occhi di Cillian Murphy, un poveretto che era in coma all’ospedale e all’alba del ventinovesimo giorno si sveglia in mezzo ai letti vuoti, le macerie, nessun umano in vista. Raccatta un po’ di cibo e va a farsi un giro, scoprendo cosa è successo assieme allo spettatore (quel che c’è da spiegare, viene spiegato dai rari sopravvissuti a chi sta dentro il film).
“28 settimane dopo” è il seguito, diretto dallo spagnolo Juan Carlos Fresnadillo. Gli infetti sono morti di fame – ebbene sì, questo era il piano per liberarsene. Comincia la ricostruzione, con i pochi superstiti e gli inglesi che al tempo del disastro erano all’estero. Si trova una portatrice sana, ma prima di riuscire a dire “vaccino” l’epidemia ricomincia. Per fermarla, bombardano Londra. Spoiler: nel finale, un altro portatore sano sbarca a Parigi (poi si capisce perché fanno la Brexit, tra un po’ chiuderanno pure il tunnel). Da lì potrebbe arrivare il “28 mesi dopo” che i fan sognano da anni.
Dalla Spagna nel 2007 era arrivato anche “Rec”, di Jaume Balagueró e Paco Plaza. L’anello di congiunzione tra il film di contagio (il remake americano è andato diretto su “Quarantine”) e il trucchetto narrativo della videocamera ritrovata, che sta ai film horror come il manoscritto ritrovato sta ai romanzi. “Rec” è il tasto premuto per registrare, con pallino rosso e contaminuti. Il cameraman accompagna una cronista nella notte, per il programma “Mentre voi dormite”. Entrano con i pompieri in un caseggiato, da lì è arrivata una chiamata, una donna urla. Quando capiscono che il pericolo è serio, cercano di fuggire. Ma l’edificio è stato messo in quarantena con loro dentro. E la videocamera registra gli orrori.
“Virus letale” di Wolfgang Petersen – che poi ci ha spaventati con la “Tempesta perfetta” e il disastro del “Poseidon” – era più classico. “Virus fabbricato in laboratorio sfugge agli apprendisti stregoni e impesta il mondo, mentre gli uomini perbene cercano un vaccino e i permale bombardano” (ricordiamo più che altro Dustin Hoffman e Kevin Spacey con le tute gialle e il casco integrale). Volendo trovare un corrispettivo con la realtà, chi disse AIDS e chi disse Ebola.
C’era il virus del morbillo, modificato per curare il cancro, in “Io sono leggenda” con Will Smith che cerca un vaccino, unico sopravvissuto a New York (era virologo nell’esercito, non provateci a casa). C’erano gli scimpanzé usati come cavia per testare un farmaco contro l’Alzheimer in “L’alba del pianeta delle scimmie”. I malati migliorano (fino a un certo punto, poi il siero li ammazza). I quadrumani diventano intelligentissimi e agli ordini di Cesare si rivoltano contro gli umani. Il resto è saga, tre film dal 2011 al 2017 che hanno brillantemente rinnovato il “Pianeta delle scimmie” di Frank Schaffner, anno 1968 (all’origine, un romanzo di Pierre Boulle, il francese del “Ponte su fiume Kwai”).
Più che i pipistrelli, i maiali, i virus mutanti e migranti per dissennate scelte alimentari, il popolo cinematografico ha temuto finora gli scienziati (e i militari inclini alle guerre batteriologiche). Variante: gli ecologi estremisti che vogliono sterminare l’umanità, così la smette di infastidire il pianeta terra. Accade nel confuso e mal riuscito “L’esercito delle dodici scimmie” di Terry Gilliam. Per fermare l’epidemia bisogna tornare indietro nel tempo, al paziente zero. Se credete a un mondo in cui si viaggia nel tempo ma si resta indietro con i vaccini, siete lo spettatore zero che potrebbe apprezzare il film e diffondere il contagio.
Parlando di untori, sulla cuoca tristemente nota come “Typhoid Mary” c’è un documentario (scarso, ma la materia ci sarebbe). Meglio leggere Jürg Federspiel, “La ballata di Typhoid Mary”. L’irlandese Mary Mallon era arrivata negli Stati Uniti nel 1868, sulla nave parecchi erano morti di tifo. Da portatrice sana contagiò una cinquantina di persone. Passava di cucina in cucina, tra i ricchi newyorchesi, con ottime referenze. Quando i padroni si ammalavano cambiava impiego. La beccarono, fece tre anni di quarantena, e fu rilasciata con la promessa che avrebbe cambiato mestiere. Con un nome falso riprese il lavoro. Riacciuffata, passò gli ultimi vent’anni della sua vita in isolamento.
L’anello di congiunzione tra i film apocalittici di contagio e l’animazione è lo strepitoso “Monsters & Co.” di Pete Docter
Un virus, pare arrivato dal Belgio, ha distrutto le città e la vita come noi la conosciamo (per ricordarsela, la mamma ha lasciato alla tredicenne Anna e al fratellino Astor un “quaderno delle cose importanti”). Dice Ammaniti: “Ho immaginato un mondo post-apocalittico dove gli esseri umani vivono quattordici anni, come i cani”. Appena crescono, il virus si risveglia e uccide. Ma forse, di là dallo Stretto, ci sono Grandi scampati al macello. Forse certe scarpe proteggono dal contagio della “Rossa”. Questo il nome dell’epidemia, che ricorda “La maschera della Morte Rossa” di Edgar Allan Poe. Fuori impazza la pestilenza, nel palazzo del principe Prospero i cortigiani si divertono. Finché a un ballo mascherato arriva la Morte Rossa, avvolta in un sudario di sangue (così il racconto, il film di Roger Corman è tutto diverso). Il virus di “Light of my Life”, ultimo film di Casey Affleck, colpisce invece solo le donne, con grave aumento della maschilità tossica.
L’anello di congiunzione tra i film di contagio e l’animazione è lo strepitoso “Monsters & Co.” di Pete Docter (quando la Pixar era la Pixar, e John Lasseter la teneva al riparo dalla perniciosa influenza Disney). I mostri che per mestiere di notte spaventano i bambini – hanno bisogno delle loro urla per far girare le turbine e produrre energia – temono i mocciosi. Li considerano infetti, basta sfiorarne uno per morire all’istante. Anche un loro calzino può uccidere. Quando la deliziosa bambina con i codini penetra nella centrale dello spavento, la trattano – e cercano di cacciarla – come un’appestata.