Il padre di Trinità
Cinquant’anni dopo la nascita della commedia western, l’accoppiata Bud Spencer e Terence Hill è ancora un successo. Ecco chi l’ha inventata
Quando Enzo Barboni si presentò nell’ufficio di Italo Zingarelli, il copione che si portava dietro, battuto a macchina dalla moglie su una lettera 22 verdina, aveva già collezionato un anno e mezzo di rifiuti. L’idea di quell’omone grande e grosso, direttore della fotografia e già operatore di macchina di grandissimi del cinema, un solo film da regista all’attivo, pareva a tutti un po’ troppo strampalata. “Gli dicevano ‘se parla troppo e se spara poco’, oppure ‘ma te pare possibile che la gente va a vede’ un film dove non more nessuno?’. Era questo il tenore dei commenti”, racconta Marco Tullio Barboni, sceneggiatore e scrittore, figlio di Enzo, che all’epoca era adolescente. Sì, perché si veniva dagli anni d’oro degli spaghetti western, dal trionfo mondiale del cinema di Sergio Leone, dalla narrazione di quel vecchio West violento, violentissimo, dove s’ammazzavano cristiani come mosche. Un’invenzione storica, che aveva funzionato benissimo. E quel copione che immischiava western e risate, che sostituiva le scazzottate alle sparatorie, era una novità che richiedeva un pizzico di azzardo. Ma Barboni, un romano caparbio e vitale, uno che aveva lavorato con Kubrick e Zimmermann, non mollava la presa. Era sopravvissuto alla campagna di Russia, s’era fatto un anno e passa di ritirata nel gelo. “Si salvò proprio grazie alla prestanza fisica”, racconta il figlio. “Era partito che pesava 98 chili ed è tornato che ne pesava 56”. Lottare, insomma, non gli faceva paura.
Nel 1970 arriva Enzo Barboni arriva nell’ufficio del produttore Italo Zingarelli, che aveva sotto contratto i due attori Girotti e Pedersoli
Nel film erano Trinità e Bambino, i due fratelli fuorilegge, implacabili con la pistola e imbattibili quando c’era da tirare pugni
Sono passati cinquant’anni dalla nascita di quello che sarebbe diventato un classico del cinema d’intrattenimento, un successo clamoroso di incassi al cinema e di audience in tv, anche dopo decine di repliche. Ma soprattutto, quello che rende speciale il film di Barboni, che firmò la regia con lo pseudonimo E.B. Cucher come fece per gli altri quattro film girati con la magica coppia, è che in quella sceneggiatura il regista inventò i due personaggi che da lì in poi Bud Spencer e Terence Hill avrebbero interpretato sempre, in ogni loro fortunatissimo film, anche in quelli scritti e diretti da altri. Un’alchimia perfetta: il furbo combina guai un po’ spaccone e l’omone forte e insofferente, che vorrebbe starsene in pace e che invece il partner caccia spesso e volentieri nei pasticci. Nel film erano Trinità e Bambino, i due fratelli fuorilegge, implacabili con la pistola (“la mano destra e sinistra del diavolo”) e imbattibili quando c’era da tirare pugni. Funzionarono alla perfezione. Marco Tullio Barboni, allora ragazzo, fu aiuto regista del padre sul set. “Un’atmosfera come quella sul set di ‘Lo chiamavano Trinità’ non l’ho più trovata”, racconta. “Le famiglie della troupe si riunivano la domenica nella valle dei mormoni, che era effettivamente bellissima. Sta sulla Roma-L’Aquila”. Sì, perché il vecchio West di Trinità e Bambino in realtà era la periferia romana. Il film fu girato nella massima economia e si cercò di risparmiare anche sugli spostamenti. Prendete la famosissima scena dei fagioli, per esempio. Tanto famosa che qualcuno definisce Trinità come il primo “fagioli-western”. Terence Hill non mangiò per due giorni prima di girarla, per apparire come un “animale affamato” (così lo apostrofa un personaggio nel film). E’ la scena iniziale, quella in cui si presenta Trinità, che sottrae a due cacciatori di taglie un messicano ricercato per avere accoltellato un uomo che aveva dato noie a sua moglie (“Mi esposa estava al fiume, señor, a lavar…”, la sua tiritera). “Quella scena è stata girata in via della Magliana. C’era l’aeroporto vicino e bisognava evitare di inquadrare gli aerei”, ricorda Marco Tullio Barboni. Il fiume nel quale cavalcano i due fratelli quando Bud Spencer caccia via dal paese Terence Hill è il Tevere. Parte degli esterni furono girati nella zona di Camposecco e Campo della Pietra (Vallepietra) a Camerata Nuova, comune di poche centinaia di abitanti vicino alla Capitale.
Un film realizzato col massimo risparmio fece incassare però una valanga di soldi. Il successo andò oltre ogni aspettativa. Trinità fece più di tre miliardi al botteghino, vicecampione di incassi della stagione, e ancora meglio fece l’anno dopo il seguito “Continuavano a chiamarlo Trinità”. Eppure si trattava “solo” di una sobria parodia dello spaghetti western. Ma fatta tanto bene da resistere al tempo. E la mano di Barboni-E.B. Clucher fu decisiva. “Era particolarmente fiero del suo lavoro da operatore alla macchina”, racconta Marco Tullio, “per aver lavorato con grandi, a partire da suo fratello Leonida Barboni, un grande direttore della fotografia che aveva vinto due Nastri d’argento. Era stato operatore alla macchina in ‘Spartacus’ di Stanley Kubrick, in ‘Vacanze romane’. Prima di Trinità però aveva fatto solo un film da regista, un western costato due lire e girato in quattro settimane”.
L’idea di trasformare il western in una commedia era stata ispirata guardando “Django” di Sergio Corbucci. Un format ribaltato
L’idea di trasformare il genere in una commedia gli era venuta vedendo “Django” di Sergio Corbucci. “Questo West cattivo, feroce, non corrisponde molto alla realtà storica”, spiega Marco Barbon. “Quando si girava ‘Django’, Corbucci arrivava sul set e chiedeva a Franco Nero: ‘A Fra’, quanti ne ammazzamo oggi?’. Mio padre, che era un innamorato del western, volle ribaltare tutto questo. Perché il genere era saturo, anche perché di Leone ce n’era uno e non è che gli altri erano tutti bravi come lui. E così venne l’idea di Trinità”. Dove tutto doveva essere ribaltato. Nessuno moriva, si sparava poco e si tiravano un sacco di cazzotti. Dove il pistolero, piuttosto che un damerino elegante era uno straccione puzzolente. E soprattutto, dove si rideva. E tanto. “Chi conosceva mio padre non se n’è meravigliato”, commenta il figli. “Aveva una gioia di vivere, un distacco dalle cose, una leggerezza… E io ho attribuito sempre tutto questo alla faccenda della Russia. Chi esce da un’esperienza come quella, o gli resta una cappa di morte addosso o ogni giorno per lui è un giorno trovato”. Barboni aveva optato per la seconda opzione. Amava la buona tavola, passione che condivideva con Bud Spencer. Ancora il figlio: “Io quando si facevano i film prendevo cinque chili, perché nella roulotte di Carlo (Pedersoli, ndr) si mangiava alla grande”. Fra i benefit, Bud Spencer voleva una cuoca. E le spaghettate erano leggendarie. “Carlo era una persona straordinaria con una grande voglia di giocare e di divertirsi”, ricorda Marco Tullio. “L’ultimo libro che ho scritto si chiama ‘Autobiografia di un cuore bambino’, che ho dedicato proprio a mio padre e a Bud Spencer”. E Terence Hill? “Lui era più professionale”. Anche Spencer la pensava così. E per una vita disse che il partner era “l’attore” mentre lui era solo “un personaggio”. Non litigarono mai, ripetevano sempre. “Ma certo, come avrebbero potuto? Erano tropo diversi, un tedesco e un napoletano”, sorride Marco Tullio Barboni. Che per la regia del padre anni dopo scrisse due sceneggiature per Bud e Terence, “Nati con la camicia”, scanzonata parodia dei film di spionaggio, e l’esilarante “Non c’è due senza quattro”, in cui la coppia si sdoppiò, affiancando ai consueti personaggi male in arnese, una spassosa coppia di ricchissimi cugini brasiliani, i Coimbra de la Coronilla y Azevedo. In mezzo a questi due e ai due Trinità, Barboni piazzò un altro film con il duo, forse in assoluto il più divertente della loro storia, “I due superpiedi quasi piatti”, del 1977, scritto da lui stesso con una deliziosa ironia come sempre garbata e “per famiglie”.
“La colonna sonora di Franco Micalizzi è strepitosa”, dice Marco Barboni. “C’era una vera magia sul set di ‘Lo chiamavano Trinità’”
Tutto però cominciò con Trinità, cinquant’anni fa. Un film che fu una di quelle miscele magiche in cui tutto si incastra alla perfezione. I due attori in primis. Ma non solo. La musica, per esempio, rimase leggendaria. Quentin Tarantino le rese omaggio nel finale di “Django unchained”. “La musica di Franco Micalizzi è strepitosa”, dice Marco Barboni. “C’era una vera magia su Trinità: Micalizzi non aveva mai fatto una colonna sonora in vita sua, era giovanissimo. Capì il sapore del film e si inventò quella musica che a cinquant’anni di distanza ancora è nelle suonerie dei telefonini”. La canzone di apertura, amatissima, la cantò un italiano-australiano, Annibale, un altro omone dalla stazza non indifferente.
Un altro ingrediente del successo lo individua il figlio del regista: “Gli stuntmen: strepitosi, bravi e collaborativi. Sono stati fondamentali per questi film. Una parte veniva dal circo, una dalle palestre e una… erano quelli matti de loro”. Senza quei bravi stuntmen le epiche scazzottate non avrebbero avuto lo stesso sapore. “Con Riccardo Pizzuti (il barbuto brizzolato che le prende sempre, in tutti i film della coppia, ndr) ancora ci sentiamo, vive in Francia e ha 85 anni”, racconta Barboni. Altro ingrediente di lusso, i doppiatori. A dare la voce a Hill e Spencer nella versione italiana di quel film e di quasi tutti i loro film successivi furono l’immenso Pino Locchi, la mitica voce italiana di James Bond che doppiava Hill, e il bravissimo Glauco Onorato, perfetta voce di Spencer (ma anche di Schwarzenegger e Charles Bronson). Immancabile tra i doppiatori del film anche il grande Ferruccio Amendola, che a volte nelle pellicole della coppia dava la voce a più di un personaggio (qui fa Jonathan Swift, aiutante dello sceriffo, quello che quando lava Trinità dice di non aver visto tanto lerciume “dai tempi dello straripamento del Pecos”). L’antagonista del film, lo spietato Maggiore, era invece Farley Granger, uno che aveva lavorato con Visconti e Hitchcock, protagonista con James Stewart della pietra miliare “Nodo alla gola”, il primo film a colori del maestro del brivido, girato come in un unico ininterrotto piano sequenza. Americano era anche Dan Sturkie, il fratello (anzi, l’hermano) Tobia, capo della comunità dei mormoni, che accoglie la coppia nella valle con un “Salve fratelli!”, a cui segue la domanda di Bambino a Trinità: “Glielo hai detto tu che siamo fratelli?”.
Fagioli e cazzotti resistono meravigliosamente al tempo. Nel 2016, la replica di Trinità su Canale 5 fece più di tre milioni di telespettatori, l’anno dopo su Rete 4 un milione e mezzo e il sette di share. Nel 1988, diciotto anni dopo l’uscita, addirittura registrò undici milioni di telespettatori. E chissà per quanti anni ancora quel copione rifiutato per un anno e mezzo strapperà risate ai fan di mezzo mondo.
Politicamente corretto e panettone