Troll direttamente a casa vostra
Oltre a quelli Pop di "Trolls World Tour", distribuito in digitale per sopperire alla chiusura delle sale, esistono altre tribù musicali: i Techno, i Country, i Funk e i Classici
I troll direttamente a casa vostra. Non quelli che abbondano nei social (senza neanche sfiorare l’efficacia del vicino che mentre Matteo Salvini comizia alla finestra, in diretta Facebook, si sporge e urla “stronzate”). Parliamo di “Trolls World Tour”, il film d’animazione diretto da Walt Dohrn e David P. Smith e distribuito direttamente in digitale per allietare le vacanze di Pasqua degli spettatori americani e italiani. Sarebbe dovuto uscire ieri nei cinema, chiusi per cononavirus a parte una ventina di drive-in negli Stati Uniti (certo son meglio delle sale, per evitare contagiose promiscuità). Tiene ferma la data, per non sprecare il lancio pubblicitario, e si trasferisce sulle piattaforme – in Italia: Sky Primafila, Apple Tv, Chili, Google Play, Rakuten Tv, Infinity e Tv Tim Vision (speriamo che qualcuna almeno lo fornisca in originale con sottotitoli, il cast vocale è strepitoso).
I troll sono pupazzetti multicolori con il ciuffo, già protagonisti nel 2016 di un film musicale per famiglie (il primo lo aveva scolpito un pescatore danese per la figlia, negli anni Cinquanta; poi son diventati giocattoli, la DreamWorks li ha fatti protagonisti di un film d’animazione, “Trolls”). “Trolls World Tour” è il seguito, sempre con Poppy e Branch, la troll tutta rosa confetto e il suo compagnuccio, l’unico privo di colore, che tende al pessimismo, evita la vita tutta canti e balli in allegria (finché non arrivano i cattivi Bergen, che di troll si nutrono, a far strage).
L’universo ora si allarga. Oltre ai Pop Trolls, variopinti come caramelle, esistono altre tribù musicali: i Techno, i Country (magnifici, con i baffi verdi e i completino con le frange), i Funk, i Classici (angioletti nuvolette e arpe, cose così). Pensate a ogni tipo di parodia video-musicale, con brani originali e no, e avrete un’idea di quel che potrebbe esplodere nel televisore o sul computer di casa. Nella versione originale, Justin Timberlake dà la voce a Branch (teneva tanto al progetto da occuparsene come produttore esecutivo). Se i pupazzetti capelluti vi sono antipatici, non se ne fa niente. Sappiate però che Barb, la regina dell’hard rock che vuole azzerare ogni altro genere musicale, trasformando i troll classicheggianti e country in zombie, vale il biglietto. Fissato a 15 euro e 99, facilmente ammortizzabile se lo si vede in quattro – tipo famiglia Simpson sul divano – con la Coca Cola a prezzi da supermercato.
E’ un primo esperimento. Un tentativo di non sprecare pubblicità e investimenti a fronte di circostanze avverse. L’industria sta a guardare, anche le major che hanno preferito finora spostare in avanti le date di uscita dei film (il primo è stato James Bond, schizzato a novembre). Non sarà decisivo – gli spettatori sono costretti a casa, molti già paganti più di un abbonamento a piattaforme streaming. Ma valeva la pena di provare.
MAD MAX: FURY ROAD di George Miller, con Tom Hardy, Charlize Theron, Nicolas Hoult (Netflix)
RATATOUILLE di Brad Bird e Jan Pinkava (Disney +)
Le profondità sottomarine, gli animali pelosi, la carnagione umana. Erano le frontiere dell’animazione cominciata con le palle, le lampade e i giocattoli. Quando “Toy Story” cominciò a tener alto il nome della Pixar (ora nel gruppo Disney, come quasi tutto, e con John Lasseter accusato di molestie, come quasi tutti). Dopo aver sguazzato con il pesciolino Nemo, dopo aver ammirato i mostri pelosi di “Monsters & Co.” (che temono il contagio di certi minuscoli essere molto molesti chiamati bambini), dopo aver applaudito quando il Gatto con gli Stivali fa la sua mossa segreta – pupille dilatate, cappello in mano, aria da tenerone – abbiamo capito che tutto sta nello sguardo. E nei gesti. Chiuso in un barattolo di vetro, sul punto di venire gettato nella Senna, il ratto Remy dialoga con lo sguattero Linguini come se in vita sua non avesse fatto altro che, nell’ordine: implorare pietà; mimare con le zampette la frase “in cucina sei scarsissimo”; convincere il giovanotto che sta conversando con un roditore, ma non è matto e non sta sognando; ribadire che la zuppa da premio è stata cucinata dal ratto medesimo, nato e cresciuto buongustaio contro il volere dei ratti parenti che rovistano nella spazzatura. Il tutto senza dire una parola, in una scena che non dura neanche cinque minuti. Diretto dal Brad Bird che aveva girato “Gli incredibili” – geniale storia di supereroi ricattati dai mediocri che fanno causa per danni (una “Genealogia della morale” in animazione, pure su Disney +). Fantastica la Parigi da cartolina, con le vecchie Citroen DS celebrate – assieme alle frites e al wrestling – da Roland Barthes. Fantastica la brigata di cucina, tanto precisa che riusciamo a capire cosa fa esattamente un “demi chef de partie”. Fantastiche le scene dove il ratto Remy spiega all’amico mangiaspazzatura l’accostamento dei sapori. Fantastico il critico gastronomico-vampiro. Geniale il momento proustiano con la ratatouille.
JURASSIC WORLD di Colin Trevorrow, con Chris Pratt, Bryce Dallas Howard, Ty Simpkins, Omar Sy (Amazon)
I dinosauri rendono un pochino meno sugli schermi casalinghi. Ma la direttrice del parco Bryce Dallas Howard si aggira trai i bestioni rinati grazie alla clonazione come se l’avessero paracadutata lì da una commedia sofisticata anni 40. Vestita di bianco sporchevolissimo, con i tacchi alti anche quando corre nella giungla, battibecca con il domatore di dinosauri Chris Pratt (in maglietta sudata, fa un numero da circo con i velociraptor) come Katharine Hepburn battibeccava con Cary Grant. Che guarda caso in “Susanna” di Howard Hawks faceva il paleontologo, e riceveva per posta un osso di dinosauro, che il cane di lei seppelliva in giardino come un ossobuco qualunque. Tiene i tacchi fino alla fine, senza mai perdere una décolleté. Nell’ultima scena appare in controluce sulle sue scarpette chiare, neanche uno strappo serio nel vestito, e scatta l’applauso. E i dinosauri? Certo, i dinosauri. Siccome a tutto ci si abitua, a Isla Nublar usano l’ingegneria genetica per fabbricare un mostro più temibile del Tyrannsaurus Rex. Un mostro femmina: della nuova specie battezzata “Indomitus Rex” esisteva anche un esemplare maschio, divorato in culla dalla signorina dinosaura. “La femmina di ogni specie è più letale dell’uomo”, ricordava Rudyard Kipling: nel mondo giurassico ricostruito per i turisti impara prestissimo l’arte della dissimulazione.
PINOCCHIO di Matteo Garrone, con Federico Ielapi, Roberto Benigni, Gigi Proietti e Rocco Papaleo (da comprare su Chili)
Non è più Natale, la Pasqua si fa da confinati, lasciamo stare la favola del padre povero di soldi e ricco di affetto alle prese con un figlio difficile e pure ingrato. “Pinocchio” è la storia di una passione. Tutte le stranezze, i dubbi, gli inciampi vanno a posto se guardiamo il film immaginando la storia d’amore di Matteo Garrone con la fiaba di Carlo Collodi. Come in tutte le storie d’amore, abbiamo una collezione di momenti alti (diciamo pure “punte sublimi”, stiamo parlando del regista di “Dogman”, perfetto in ogni pozzanghera e in ogni cane da toelettare). Ma ogni tanto capitano i momenti di stanca, e le scelte poco comprensibili a chi sta fuori dalla coppia. La storia – nel libro di Collodi – è cupa e angosciosa, strano che non l’abbiano ancora espulsa dalle biblioteche scolastiche, il burattino viene impiccato, annegato, gli spuntano le orecchie d’asino. E poi ci sono le altre disgrazie, gli incubi, la fame perpetua. Peggio se sei fatto di legno, e non hai nessuna esperienza del mondo: provi a scaldarti i piedi al fuoco, ti ritrovi con i moncherini in fiamme fino a metà polpaccio. Nelle scene spaventose come questa, Matteo Garrone ha la mano felicissima. I moncherini con la brace che ancora arde mettono i brividi. Al pari dei conigli neri che con la piccola bara bianca vengono a prendersi Pinocchio, al suo rifiuto di mandare giù l’amara medicina somministrata dalla Fata con i boccoli turchini (sempre un po’ antipatica, ma è stato Collodi a volerla così). Vale anche per il terrore più astratto procurato dal Giudice Scimmione, che ti manda in galera se sei innocente e ti lascia libero se sei colpevole. O per le gag della serva Lumaca, sulla sua bava si fanno capitomboli. Il burattino viene ricavato da un pezzo di legno, e ne conserva le venature. Man mano che il film procede il legno diventa sempre più “vissuto”: le intemperie e i maltrattamenti lasciano segni visibili sul volto di Federico Ielapi (anche lui un po’ antipatico, ma è stato Collodi a volerlo così). Tra le ombre, una troppo invadente è la colonna sonora firmata Dario Marinelli. Il Grillo Parlante (odioso, ma sempre per volere di Collodi) somiglia a Yoda con le antenne.
QUESTI SONO I 40 di Judd Apatow, con Leslie Mann, Megan Fox, Paul Rudd, Jason Segel (Amazon)
La famiglia del film coincide per tre quarti con la famiglia del regista: la consorte Leslie Mann, le figlie Iris e Maude, fortissima su Twitter. L’ultimo quarto si chiama Paul Rudd, ora nella serie “Living with Yourself” di Timothy Greenberg (in questi tempi di quarantena spaventa già dal titolo, per i coraggiosi è su Netflix, racconta di un giovanotto che credendo alla promessa di un se stesso migliore viene rimpiazzato da un clone). Svoltati i quarant’anni – più lui che lei, erano coetanei ai tempi del primo bacio, poi l’età della signora ha rallentato anche sulle cartelle cliniche – decidono di prendere provvedimenti. Lui smetterà di mangiare dolci, lei smetterà di fumare, insieme andranno in palestra e faranno repulisti dei cibi spazzatura in dispensa. Quasi tutti: lo spiantato genitore di lui (Albert Brooks più bravo che mai, con moglie giovane e figli gemelli, un mito tra i comici ebrei americani) ne ricava abbastanza da tirare avanti una settimana. La comicità di Judd Apatow – come quella di Adam Sandler – non è amatissima (eufemismo) dagli spettatori italiani, ma vale la pena di fare un altro tentativo. Su Amazon potete vedere il film in originale con i sottotitoli. Molto meglio che al cinema: il doppiaggio obbligatorio per questo genere di film era sempre piuttosto frettoloso, e molte battute restavano sul terreno, stecchite. E’ stato accusato anche di volgarità. Lo è, e in massimo grado, quando vuole. Ma fa ridere: nessuno nella patria di Lenny Bruce e Sarah Silverman ha mai creduto alla “comicità garbata”. “Gli americani hanno il terrore del pisello, sto cercando di farglielo superare”, confessa Apatow, che mostra sempre almeno un maschio tutto nudo nei suoi fil